Marco Ferrante, il Riformista 3/2/2009, 3 febbraio 2009
FIAT, HA PIU’ DATO O PIU’ AVUTO?
Ancora un crollo del mercato dell’auto: meno 33 per cento il nuovo, meno 17 per cento l’usato. Le vendite Fiat vanno leggerissimamente meglio della media, 31 per cento, e il gruppo torinese va al 32 per cento di quota di mercato. Questo nuovo risultato arriva in un momento teso nella discussione sul sostegno pubblico al settore, e sul ruolo reale e simbolico della Fiat nel nostro capitalismo. Mentre la Lega si oppone agli aiuti, il libro di un politologo, Luca Germano, sul rapporto tra "Governo e grandi imprese" (11 Mulino, 251 pagine, 22,50 euro) rilancia una questione che da almeno trent’anni la Fiat e che oggi torna di attualità nel dibattito sugli siuti: la Fiat ha piú preso o più avuto dallo Stato?
Periodicamente, il tema del rapporto tra noi e la Fiat ritorna. Per almeno ottant’anni - dopo la vittoria di Giovanni Agnelli e del suo alleato Riccardo Gualino contro i Perrone di Genova, proprietari dell’Ansaldo, e fino alla fine degli anni Novanta - la Fiat ha esercitato un ruolo egemone sul capitalismo italiano, sul nostro sistema industriale e sulle politiche di sviluppo det sistema industriale.
Questo grande peso ha influenzato, per esempio, lo sviluppo del trasporto su gomma (condizionato anche dagli interessi dei Pirelli e dell’Eni di Mattei), la direzione dei movimenti di migrazione interna, a partire dal massiccio inurbamento di Torino, e poi il sistema delle relazioni sindacali, l’equilibrio di forze orientato sul patto dei produttori, cioè l’asse tra industriali e metalmeccanici, i cui interessi venivano in un certa misura contrapposti a quelli di un pezzo del ceto medio (qui affondano le diffidenze leghiste). D’altro canto nell’evoluzione del nostro sistema economico misto, la Fiat è stato uno strumento chiave per le politiche economiche e industriali dei governi italiani e un fattore decisivo di crescita economica.
In centopieci anni di storia, la Fiat ha fornito ossatura militare, è stato il principale volano di modernizzazione anche sociale, è stato uno dei cardini su cui è cresciuta una rete di imprese grandi e piccole; dopo lo Stato ha occupato per decenni il primo posto nella classifica dei contribuenti e dei datori di lavoro italiani: basti pensare che ancora fino alla fine degli anni Settanta, mentre il mercato dell’auto cominciava a contrarsi (anche a causa del primo shock petrolifero) la Fiat continuò ad assumere 10.000 persone all’anno, come si desume dalle serie storiche sull’occupazione in una pubblicazione dell’archivio storico della Fiat del 1996 all’epoca diretto da Giuseppe Berta, dal titolo "Fiat, le fasi della crescita". Così, lo scontro di questi giorni sulla Fiat - simbolicamente Roberto Calderoli contro Matteo Colaninno - nasce da un diverso giudizio su questo equilibrio. Per Calderoli la Fiat ha avuto più di quel che ha dato, per Colaninno è il contrario.
Ma quantificare con delle cifre questo equilibrio è molto difficile. Negli anni Ottanta alla vigilia della cessione dell’acciaio Teksid a Finsider e della cosuuzione dello stabilimento di Melfi si cercò di quantificare il sostegno di cui aveva beneficiato l’azienda torinese, si parlò di una cifra complessiva dal dopoguerra in poi di circa 6 0.000 miliardi di lire dell’epoca. Erano stime, aggregati estratti con molta difficoltà da fonti diverse e disomogenee. Le cifre sono franunentane ancora oggi. Come hanno spiegato in tanti in questi giomi, già la misura dell’impatto complessivo del settore auto, cioè della Fiat e del suo indotto, sul pii (l’I 1 per cento secondo Claudio Scajola) e sull’occupazione (300.000 persone secondo Emma Marcegaglia) è difficile da quantificare. Rispetto al passato i èátcoli sono particolannente ardui. Luca Gertnano ha messo insieme un elenco di provvedimenti di sostegno alla Fiat, ma lo considera egli stesso incompleto. Dice al Riformista: «E un calcolo estremamente complesso. Perché non si trovano le infonnazioni disaggregate di alcune voci, per esempio la cassa integrazione guadagni, oppure i contributi all’innovazione e fonnazione professionale». Germano riproduce un calcolo della Commissione europea secondo cui tra il 1977 e il 1987 la Fiat ha ottenuto 3,2 miliardi di ecu di aiuti di Stato, contro i 4,5 della Renault (pubblica) e l’1,5 della Volkswagen (semipubblica). Anche a questi dati manca la parte previdenziale. Germano utilizza queste cifre per un’analisi comparata, e sostiene a ragione che il denaro pubblico investito in Italia non ha prodotto gli stessi risultati qualitativi che ha prodotto per esempio in Gerinania. Rispetto alla questione del dare/avere, invece, questi calcoli non tengono conto di quanto i contributi pubblici hanno generato in termini di pil o di restituzione fiscale.
E’ più facile ragionare su quello che è successo negli ultimi anni. Un dossier che circola anche al ministero dell’indushia dice che negli ultimi dieci anni tra il 1998 e il 2007, la Fiat ha avuto meno di quanto ha dato. Ha ottenuto circa 1,9 miliardi tra cassa integrazione (235 milioni di euro), contributi alla ricerca e per investimenti. Senza contare le risorse proprie investite in ricerca e sviluppo, in cambio ha versato all’Inps 540 milioni, e pagato 2,4 miliardi di euro tra imposte sul reddito 2,2 e Ici (200 milioni): in tutto sarebbero 2,9 miliardi dati, contro 1,9 ottenuti.
Dunque, in un certo senso chi oggi si oppone al sostegno alla Fiat, si oppone in realtà a una specie di proiezione culturale, quello che la Fiat è stata, la Fiat egemone, la Fiat di Vittorio Vailetta e di Cesare Romiti, la Fiat che generava regalità sostitutiva nell’immaginario sociale del Paese a favore dei suoi azionisti di riferimento, la famiglia Agnelli. Oggi la Fiat non è più quella di allora. Da una parte è più piccola, ha meno influenza sulla vita nazionale, non è nel risiko economico e finanziario (con la sola eccezione della partecipazione nel Corriere della Sera); dall’altra è un giocatore globale, come sostiene Gemino nelle sue conclusioni, che prova a continuare la sua complicata partita in un mondo che nel frattempo è esposto alla recessione globale e alle prese con un nuovo consolidamento (ieri La Tribune ha riferito dell’ipotesi di fusione Bmw-Peugeot). Dice Gerrnano al Riformista: «In queste condizioni cambia il senso degli aiuti. Non concederne sarebbe un errore, perché se gli Stati Uniti eccezionalmente intervengono, la Francia lo fa come sempre (con un intervento pro attivo), e se intervengono anche Gran Bretagna e Spagna si determinerebbe un’asinunetria che penalizzerebbe la produzione italiana».
Una questione, però, resta.
Quando una reazione nasce dal riflesso automatico di una comunità, vuoi dire che investe un fattore culturale profondo. Questi cinque anni di governo dell’azienda da parte di un manager cresciuto in Canada, Sergio Marchionne, non hanno cancellato la diffidenza di un pezzo del Paese - e del suo ceto politico - nei confronti della sua principale azienda manifatturiera, come se non accettasse di riconoscersi nella sua stessa storia. Anche questo lavoro di persuasione culturale deve far parte dei compiti di una grande impresa.