Maurizio Molinari, La stampa 4/2/209, 4 febbraio 2009
AIUTARE O NO LA CASALINGA DEL MICHIGAN?
Barack Obama rispolvera la dottrina di John Maynard Keynes nel tentativo di sconfiggere la recessione ma è una scelta che divide gli economisti trasformando l’America nel palcoscenico di un duello di appelli che ruota attorno a ricette opposte su come tornare ricchi.
Protagonisti dello scontro sono due centri studi di Washington. Il Center for American Progress di John Podesta, ex capo di gabinetto di Clinton scelto da Barack per coordinare la transizione di poteri, è il pensatoio obamiano che ha partorito l’idea della «crescita progressista» basata sulla teoria di Keynes secondo cui l’intervento dello Stato nell’economia può aiutare ad arginare e sconfiggere la recessione. E’ un’impostazione che si basa sulla scelta di «non preoccuparsi del deficit pubblico», come sottolinea il premio Nobel Robert Solow, puntando a spendere masse enormi di denaro nelle maniere più differenti - dai sussidi ai disoccupati agli aiuti a chi ha le case pignorate fino al salvataggio finanziario delle imprese in crisi - con l’obiettivo di far riprendere i consumi nel breve termine. Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Clinton, ha aggiunto a tale impostazione un’impronta «strutturalista» ovvero il consiglio a Obama di investire nei settori che nel lungo termine possono aiutare la società nel suo complesso a risollevarsi: energie rinnovabili, sanità pubblica per tutti, scuole migliori, una rete Internet capace di raggiungere ogni angolo della nazione-Continente.
Il Recovery and Reinvestment Plan creato sotto l’ombrello di Podesta, messo per iscritto dai super-consiglieri Larry Summers e Daniel Tarullo, e consolidato dalle idee di Solow e Reich ha portato a una rivalutazione di Keynes tale da scaturire per reazione la creazione di un fronte contrapposto, coagulatosi attorno al Cato Institute di Edwards Crane. E’ un centro studi che si definisce «libertario» e sfugge alla tradizionale contrapposizione tra liberal e conservatori, come dimostra il fatto che criticò l’amministrazione Bush sulla guerra in Iraq, le libertà civili, l’energia e la sanità plaudendo invece alle scelte compiute su clima, immigrazione, tasse e previdenza.
La scelta del Cato è stata di far convergere su un testo di nove righe tutti gli economisti ostili all’idea keynesiana secondo cui «più spesa pubblica giova all’economia». Le 203 firme raccolte disegnano una convergenza fra le maggiori scuole di pensiero di matrice Fresh Water, riconducibili all’Università di Chicago, trovando una bandiera nel premio Nobel Edwards Prescott che descrive Obama come un ingenuo dalle migliori intenzioni: «Sono d’accordo con quello che persegue ma inseguirlo non basta a farlo avvenire, lui pensa che tutto si risolverà con la buona volontà e le buone azioni ma non è detto che succeda». Prescott è contro il ritorno a Keynes perché ritiene che il deficit pubblico aumentato comporterà nel medio termine l’aumento delle tasse e dunque la contrazione dei consumi, aprendo la strada ad una stagnazione di lungo termine. La strada alternativa che suggerisce, assieme ad altri Nobel come James Buchanan e Vernon Smith, è di «tagliare le tasse oppure non fare nulla». Eugene Fama, teorico dell’efficienza dei mercati, e John Cogan, volto di spicco a Standford, sono ancora più duri: «Aiutare le casalinghe è giusto ma non serve a rimettere l’economia in marcia». L’obiezione di fondo che i firmatari dell’appello del Cato fanno a Obama è che per risollevare i consumi non servono investimenti pubblici quanto piuttosto la riduzione delle tasse e, come sottolinea l’ex consigliere reaganiano Steve Hanke, soprattutto delle imposte sui ricavi di Borsa perché «la crisi è iniziata con il crollo di Wall Street e dunque finirà con la ripresa dei mercati».
L’affondo del Cato, esaltato dall’acquisto di una pagina sul New York Times, ha colto di sorpresa Podesta che, da noto stakanovista, è corso ai ripari confezionando in pochi giorni un contro-appello, questa volta a favore di Obama con 81 firmatari - inclusi sei premi Nobel - che hanno condiviso la richiesta al Congresso affinché faccia in fretta nell’approvare il pacchetto di stimoli di circa 900 miliardi di dollari. Il contro-blitz di Podesta ha però messo in luce delle differenze anche nel fronte obamiano: fra i firmatari infatti manca Paul Krugman, il più determinato sostenitore del ritorno a Keynes, come anche John Stiglitz, che suggerisce la necessità di «interrogarsi sull’efficacia di iniettare valanghe di soldi», mentre include Paul Samuelson, secondo il quale l’aumento della spesa pubblica deve essere «non ortodosso» ovvero condizionato alla decisione di non aumentare le tasse nel prossimo futuro.
All’interno di questa sfida a tutto campo fra centinaia di economisti vi sono anche nomi di italiani protagonisti della vita accademica in America. Nel campo del Cato Institute Alberto Bisin, della New York University, guida una pattuglia di cinque connazionali firmatari dell’appello anti-Keynes. «Se sommiamo i nomi raccolti da noi e da Podesta - dice Bisin - ci accorgiamo che gli economisti delle maggiori scuole sono contro il ritorno a Keynes che è invece invocato da personaggi più vicini alla politica». Sul fronte opposto Teresa Ghilarducci, della New School for Social Research afferma invece che «ad essere politici, anzi ideologici, sono tutti coloro che si oppongono a Keynes al fine di far resuscitare il monetarismo che ha causato i danni con cui ci troviamo a che fare».