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 2009  febbraio 04 Mercoledì calendario

COSI’ ABBIAMO REINVENTATO L’EVOLUZIONE


Più di ogni altro personaggio negli annali della scienza, Charles Darwin continua a occupare il centro della scena della biologia evoluzionistica, da lui fondata 150 anni fa.
A mio avviso, sono due le ragioni per cui Darwin è ancora così visibile. Dal punto di vista intellettuale, la sua meticolosa dimostrazione della verità stessa dell’evoluzione - vale a dire che le specie oggi viventi discendono tutte da un antenato comune nel remoto passato geologico - ottenuta da montagne di prove, unite a una feconda intuizione teorica, ha sostanzialmente forgiato lo stampo della teoria evoluzionistica con la quale continuiamo a lavorare. E tutto ciò nonostante grandi passi in avanti, specialmente nella genetica e nella sua forma moderna, la genetica molecolare. Darwin ci ha insegnato che tutto ciò che è necessario per comprendere il nocciolo del processo evolutivo è che «i nipoti assomigliano ai nonni», ovvero che i caratteri anatomici sono ereditabili, a prescindere da come si sono formati, e che i caratteri tendono a variare nelle popolazioni.
La seconda ragione per cui Darwin giganteggia ancora è che la sua dimostrazione, innegabile, che la vita si è evoluta, e in particolar modo che noi umani facciamo parte del grande arazzo della vita, deve ancora essere incorporata nella cultura occidentale, dove forte è la resistenza all’idea che la specie umana si sia evoluta insieme a ogni altra forma di vita. E’ come se la nostra cultura non avesse «metabolizzato» Darwin e le sue idee evoluzionistiche.
Io stesso sono stato catturato dal grande naturalista inglese per buona parte della mia vita. Tutto è cominciato negli Anni 60, quando studiavo all’Università. La seconda fase della mia danza con lui risale a qualche anno dopo. Quando avanzai nella carriera di paleontologo, mi ritrovai presto in disaccordo proprio con quel Darwin che aveva fondato la professione in cui mi accingevo a entrare. Mi imbattei in un fatto che lui e i contemporanei ben conoscevano, ma su cui egli stesso aveva messo una pietra sopra, quando pubblicò nel 1859 le sue idee evoluzionistiche nell’«Origine delle specie». Il fatto in questione è il fenomeno della «stasi». Come risulta, le specie cambiano poco durante la loro storia documentata dai fossili. Invece del lento, costante e graduale cambiamento che - egli diceva - ci saremmo dovuti aspettare, scoprii un’ostinata stabilità. E l’evoluzione, quando accade, arriva rapidamente, per brevi scatti, nel momento in cui le specie si dividono: per esempio, quando una nuova specie alle prime armi si separa da una più vecchia, la specie «parentale». In un articolo scritto con Stephen Jay Gould nel 1972 definimmo «equilibri punteggiati» questo schema dell’evoluzione, cioè, in altre parole, una stasi interrotta da scatti occasionali di cambiamento evolutivo.
Come dicevo, Darwin era consapevole della stasi già negli Anni 30 dell’Ottocento, quando stava compilando in segreto i «Taccuini sulla trasmutazione». Alla fine, quando nel celebre libro pubblicò le sue concezioni evoluzionistiche, dipinse una concezione così deprimente della paleontologia - la documentazione fossile è incompleta al punto che è inutile pensare che ci illumini sui dettagli del processo evolutivo, affermava - che la nozione stessa di stasi fu sepolta e si fossilizzò. Fino a quando la riportai in vita. Erano passati più di 110 anni dalla pubblicazione dell’«Origine».
Per questa ragione fui considerato un eretico. Avevamo osato contestare Darwin. Eppure ci consideravamo neodarwiniani fedeli! Continuammo a sostenere l’idea che il cambiamento evolutivo è in buona parte una faccenda di cambiamento adattativo guidato dalla selezione naturale. Solo che l’evoluzione non procede in continuazione modificando inesorabilmente le specie, ma si verifica perlopiù in circostanze speciali.
Tuttavia, la mia controversia con Darwin fu solo una fase del mio rapporto con questa figura carismatica. Infatti, quando nel 2002 mi fu proposto di curare una mostra sul grande naturalista, accettai al volo. Mi ritrovavo così a «danzare con Darwin» per la terza volta.
I risultati sono stati estremamente gratificanti. La mostra Darwin è stata inaugurata nel 2005 presso l’American Museum of Natural History di New York, con grande successo di critica e di pubblico, e continua a viaggiare per il mondo, aggiornata e integrata. La versione italiana è fra le più avvincenti. Contiene i molti collegamenti di Darwin con gli scienziati italiani e - da principio con mio grande stupore - il fatto che le prime riflessioni di Darwin sull’evoluzione dipendevano in pieno dalle teorie del geologo italiano Giambattista Brocchi. Fu per me una vera scoperta!
Eppure rimaneva un margine di insoddisfazione. Avevo scoperto che, nelle prime versioni del suo pensiero evoluzionista, il grande naturalista inglese aveva espresso idee molto affini alle mie riguardo agli «equilibri punteggiati».
E, nonostante già sul finire degli Anni 30 dell’Ottocento egli si fosse opposto all’idea della stasi, le sue prime concezioni sull’evoluzione, in particolare nel «Taccuino rosso» del 1837, erano indubbiamente «saltazioniste». Darwin pensava che nuove specie si fossero evolute da specie ancestrali per salti improvvisi. Benché la nostra idea di equilibri punteggiati non fosse saltazionista, quando fu pubblicato il nostro primo articolo, Gould e il sottoscritto fummo accusati di saltazionismo. E qui stavo scoprendo che, all’inizio del 1837, Darwin era stato esplicitamente saltazionista.
Ero deciso a saperne di più. Iniziò, allora, la quarta, e attuale, fase della mia danza con Darwin.
David Kohn mi fece la proposta di recarci alla Cambridge University Library, per esaminare le parti dei suoi appunti sul Beagle ancora da pubblicare: le sue lettere, il «Diario», le «Zoological Notes» e le «Ornithological Notes». Si trattava principalmente del «Geological Diary».
E quale miniera si dimostrarono! Darwin fu colpito, in particolare, dalla scoperta dei fossili di mammiferi estinti a Bahia Blanca nel 1832. Egli commentò la somiglianza tra il carapace gigante di uno dei suoi fossili e i più piccoli «gusci» che ricoprivano gli armadilli viventi, che gironzolavano sugli affioramenti contenenti quei fossili. Gli armadilli sono nativi delle Americhe. Darwin comprese che la linea dell’armadillo e quella imparentata dei bradipi erano presenti nella documentazione fossile in forme giganti estinte, sostituite, nella fauna moderna, da specie più piccole nello stesso gruppo di base.
Darwin riscontrò, inoltre, che i gusci fossili di specie invertebrate marine si mescolavano con le ossa di mammiferi giganti estinti. Pensò, dunque, che fossero i resti delle stesse specie ancora viventi nelle acque dell’attuale Bahia Blanca.
E, come ultimo elemento essenziale, scoprì le ossa fossili di un mammifero di taglia inferiore - che reputò essere un parente prossimo estinto della «cavia» vivente della Patagonia - membro di un gruppo di roditori nativi anch’essi delle Americhe. Queste ossa provenivano dall’affioramento conosciuto come «Monte Hermoso», mentre il gliptodonte gigante, il bradipo e altre ossa provenivano da «Punta Alta», l’altro affioramento lungo le coste di Bahia Blanca.
Darwin era ansioso di dimostrare che la cavia fossile di Monte Hermoso aveva la stessa età dei più grandi fossili di mammiferi di Punta Alta. Riteneva che fosse una specie estinta, appartenente allo stesso genere della moderna cavia della Patagonia. In parole povere, egli pensava di essere testimone delle tracce dell’estinzione e dell’evoluzione in azione. E qui entra il lavoro di Giambattista Brocchi.
Brocchi era un geologo e paleontologo italiano, la cui opera fu lodata dal geologo inglese Charles Lyell. C’era, però, un aspetto che a Lyell non piaceva. Il primo aveva scritto che, come i singoli organismi hanno una nascita e una morte attribuibile a cause naturali, così possiamo affermare che le specie hanno una nascita e una morte dovuta a cause naturali. Lyell concordava che la morte delle specie - l’estinzione - avesse tali cause e, pur essendo anti-evoluzionista (e dunque «creazionista»), supponeva che alla fine avremmo trovato una spiegazione della nascita e della morte delle specie nei termini di cause naturali. Questa è l’analogia di Brocchi: le specie hanno una nascita e una morte, proprio come i singoli organismi.
Tuttavia, Lyell dissentiva dall’italiano sulla faccenda dell’estinzione. Il geologo inglese percepiva - e su questo concordano molti scienziati, incluso il sottoscritto - che l’agente dell’estinzione delle specie fosse, di norma, il cambiamento ambientale. Viceversa, Brocchi avanzò la teoria che le specie avessero una durata naturale, intrinseca.
Darwin era in sintonia con questa seconda teoria. Anch’egli aveva la sensazione che l’ambiente in cui erano vissuti i mammiferi fossili fosse lo stesso terreno dalla vegetazione rada in cui vivono ancora oggi le specie di mammiferi della Patagonia. Pertanto, pensò, nell’estinzione dei mammiferi fossili non sembra in gioco alcun cambiamento ambientale. Attingendo alle idee dell’italiano, Darwin ritenne, inoltre, che ciascuna specie avesse una propria durata di vita, differente da quella di altre specie viventi nello stesso luogo. E’ perciò prevedibile che le specie si estinguano in tempi differenti; e poiché egli era d’accordo con Lyell che la diversità delle specie rimaneva in sostanza costante nel tempo, nuove specie devono «nascere» per sostituire quelle estinte, all’incirca nel periodo in cui le specie più vecchie vanno incontro a estinzione.
Darwin si accostò dunque all’evoluzione da paleontologo. Ora mi rendo conto che, con i miei colleghi, abbiamo semplicemente «reinventato la ruota», cercando di ripristinare tutti i caratteri dell’evoluzione che Darwin aveva apertamente sposato da ragazzo, per rifiutarli più avanti negli anni, quando dipinse una teoria molto generale dell’evoluzione attraverso l’idea che tanto gli fu cara: la selezione naturale. La storia della biologia evoluzionistica è consistita essenzialmente nel restituire elementi che Darwin aveva nel tempo scartato prima di scrivere «L’origine». Mi riferisco al ruolo dell’isolamento, alla nozione di speciazione geografica, alla stasi, e all’importante fenomeno dell’estinzione di massa che innesca ondate di ritorno di risposta evolutiva. Abbiamo ancora molto da imparare da Darwin!

Luce sarà fatta sull’origine dell’uomo», scriveva, sornione, Charles Darwin. Un secolo e mezzo dopo c’è ancora molta luce da fare.
Ian Tattersall, lei è uno dei paleoantropologi più celebri: che cosa cerca di svelare adesso?
«La grande domanda riguarda come gli esseri umani abbiano acquisito il loro metodo cognitivo così inconsueto: processiamo le informazioni del mondo esterno in un modo diverso da qualunque altro organismo vivente. Creature non linguistiche e non simboliche hanno dato vita alla creatura simbolica e linguistica che siamo oggi. E’ stata una cesura completa rispetto al passato».
E a che conclusioni è arrivato? Come è stato possibile il costante aumento della capacità cerebrale che si registra nei fossili degli ultimi 2 milioni di anni?
«Due milioni di anni fa i cervelli dei nostri predecessori avevano le dimensioni di quelli delle scimmie, un milione di anni fa erano all’incirca raddoppiati e oggi, di nuovo, sono quasi due volte più grandi. E’ evidente che ci sia un trend, ma si manifesta nell’intera famiglia degli ominini e, quindi, attraverso molte specie distinte. Sebbene fossero già consapevoli di sé, queste specie sperimentarono aumenti minimi generazione dopo generazione: l’unica deduzione è che chi possedeva cervelli più grandi avesse anche un maggiore successo riproduttivo».
I Neanderthal avevano una scatola cranica maggiore, eppure persero la gara contro i sapiens: perché?
«Ciò che sappiamo è che ci sono state 3 linee di ominini in cui i cervelli diventarono via via più grandi: i Neanderthal, appunto, l’homo erectus e noi sapiens. E’ chiaro, quindi, che c’è stata una predisposizione nella nostra grande famiglia all’aumento. Dobbiamo scoprire su che cosa si basi, se vogliamo capire l’origine della cognizione».
Ma solo i sapiens hanno maturato il pensiero simbolico: giusto?
«Sì. E lo sappiamo non dai fossili, ma dai resti archeologici. Dalle pitture di Lascaux, ma anche dalle testimonianze emerse in Africa e che risalgono a 80 mila anni fa. Sembra che il pensiero simbolico sia nato dopo che la nostra specie si era evoluta come una riconoscibile entità morfologica a se stante».
Il linguaggio fu la causa o la conseguenza?
«Da solo non è bastato. Penso che prima ci sia stata un’enorme riorganizzazione neurale che ci abbia preparati al linguaggio. Il modello dell’evoluzione umana dimostra che le innovazioni dei comportamenti e quelli della biologia non vanno di pari passo: le specie diventano entità anatomicamente riconoscibili, ma continunano a comportarsi come i predecessori, fino a quando non si verifica qualche scoperta: ed è qui - penso - che entra in scena il linguaggio».
Lei come lo definisce?
«Come la manifestazione più elevata del pensiero simbolico: richiede di scomporre il mondo circostante in una serie di astrazioni e poi di riorganizzarle attraverso regole precise, creando così nuove cose e nuovi modelli. Penso che sia stata proprio l’invenzione del linguaggio a rappresentare lo stimolo culturale capace di scatenare una capacità biologica che era rimasta silente tanto a lungo. Ecco perché considero il linguaggio come una realtà intimamente associata all’adozione del pensiero simbolico».
Il nostro cervello, perciò, è una collezione di «pezzi» evolutisi in momenti diversi?
«Sì. Ha una lunga storia, che va indietro fino a 300-400 milioni di anni fa. Incarna una vicenda di accrescimenti graduali, in cui strutture sempre diverse si sono aggiunte. Credo che nulla di ciò che vediamo oggi sarebbe stato possibile senza ciascuno di quei cambiamenti, ma penso anche che le caratteristiche attuali del cervello non fossero prevedibili sulla base di nessuna di quelle prime trasformazioni».
Nulla di deterministico, quindi?
«La comparsa di ogni elemento su una struttura antica ha consentito prestazioni sempre nuove rispetto a quelle degli antenati: si tratta di una ”capacità emergente”. In gioco non c’è la selezione naturale, ma un processo di acquisizioni successive e casuali».
E Darwin? Quanto è in disaccordo con il padre dell’evoluzionismo?
«Penso che lui fosse il primo a essere consapevole dell’incredibile complessità della natura, mentre il neo-darwinismo rappresenta una semplificazione che allo stesso Darwin non sarebbe piaciuta. Sono convinto che la selezione naturale esista, ma solo a livello locale, in popolazioni ridotte. Poi ci sono altri livelli di interazione: in primo luogo la competizione tra specie diverse per la conquista di spazi ecologici e, perciò, per la sopravvivenza. Non sono d’accordo con i riduzionisti che tendono a considerare i fenomeni evolutivi come un cambiamento graduale nel tempo delle frequenze genetiche. C’è una storia molto più vasta. Di azioni e reazioni. E noi siamo la prova».