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 2009  febbraio 03 Martedì calendario

IL RUBLO RIVEDE LO SPETTRO DEL 1998


All’inizio, Vladimir Putin avrebbe voluto che tutto avvenisse nel modo più silenzioso possibile. Così a poco a poco, in venti mosse da novembre al 22 gennaio, la Banca centrale russa ha pilotato una svalutazione che - allargando la fascia di oscillazione consentita e vendendo euro e dollari per frenare la caduta - ha consentito al rublo di non perdere troppo bruscamente un terzo del proprio valore. Scelta saggia, per alcuni, scriteriata per chi, come la Banca mondiale, ritiene che questa difesa abbia solo assottigliato di un terzo le riserve in valuta rafforzando l’aspettativa di altri, inevitabili scivoloni, e privando gli esportatori dei vantaggi del rublo debole.
Ma il premier è stato chiaro: la priorità è la fiducia della gente, darle il tempo di adattarsi, evitare lo spettro del 1998. Allora la crisi venuta dall’Asia mise in ginocchio un Governo finanziariamente debolissimo, il rublo perse il 71% polverizzando in un mese i risparmi dei russi. Se succedesse oggi, Putin resterebbe travolto: una moneta solida è uno dei pilastri della fortezza Russia ricostruita nei suoi dieci anni al potere.
Ma ignorare il lento calo del rublo è sempre più difficile: basta camminare per la strada e a ogni angolo un cartellone suona la ritirata quotidiana nei confronti di euro e dollaro. «Obman!», grida arrabbiato un uomo sbattendo la porta di un cambiavalute. Un involontario gioco di parole tra obmen, cambio, e obman, imbroglio. Solo due mesi fa, un euro comprava 29 rubli, oggi 46. Il vero banco di prova sono i prossimi giorni: il rublo non sembra in grado di reggere il nuovo limite imposto dalla Banca centrale, un corridoio di 26-41 rubli rispetto al paniere euro/dollaro. Dopo neanche due settimane, il rublo è già a 40,80, a un soffio dalla soglia massima. Bank Rossii si dice decisa a difenderla, ma il prezzo giusto, arriva a dire qualcuno, è 70 rubli per un dollaro. Gli speculatori si preparano a uno showdown.
«Il petrolio ci indicherà la strada», dicono gli analisti. Il rublo non ha fatto che adeguarsi al calo di tutte le altre valute che dipendono dall’export di materie prime, il rand sudafricano, il dollaro australiano. Ma per rallentare la scivolata la Banca centrale si è dissanguata, spendendo fino a 6 miliardi di dollari alla settimana: scese a quota 386,5 miliardi di dollari, dai 596 di agosto, le riserve in valuta restano al terzo posto nel mondo, dopo Cina e Giappone, ma il ritmo non è sostenibile a lungo.
Ormai, anche il Governo pronuncia la parola crisi. «Durerà tre anni - ammette il vicepremier Igor Shuvalov - e il 2009 sarà il più difficile». Di fronte alla Duma, il ministro delle Finanze Aleksej Kudrin ha preannunciato un deficit di bilancio «significativo» per il 2009, pari al 6,1% del Pil. L’epoca d’oro del petrolio è finita, le entrate caleranno del 40% e Kudrin invoca cautela: le misure anti-crisi adottate finora costano 61-64 miliardi di dollari, il 5,2-5,4% del Pil. Senza contare il pacchetto di salvataggio degli oligarchi: 50 miliardi di dollari destinati a riscattare i debiti delle grandi imprese con le banche straniere. «L’esperienza - ha scritto giorni fa Kudrin su una rivista - mostra che aiutare indiscriminatamente imprese e banche, senza tenere conto dei bilanci, non accelera l’uscita dalla crisi, né ne attenua le conseguenze».
Per la Russia, l’avvio verso la recessione è un brusco risveglio, dopo anni di crescita al 7-8 per cento. Kudrin limita le perdite a un -0,2% per il 2009, ma secondo Vladimir Milov, ex ministro e presidente dell’Istituto per la politica energetica, «la recessione si rivelerà più profonda». Solo in dicembre, i disoccupati sono aumentati di più di mezzo milione, a quota 6 milioni. Al centro delle preoccupazioni sono le cosiddette "mono-città", che vivono di una sola grande industria: negli Urali, regno della metallurgia, gli ordini si fermano, miniere e acciaierie tagliano la produzione, la settimana di lavoro si accorcia, gli stipendi vengono pagati a metà.
Finora Putin è apparso impermeabile. Come se il suo tasso di popolarità non avesse niente a che vedere con il calo del rublo, l’inflazione, la perdita di posti di lavoro: un sondaggio del Levada Centre rivela che l’80% dei russi continua ad approvare la sua leadership, anche se solo il 43% pensa che il Paese stia andando nella direzione giusta. «Putin è come una figura simbolica - dice Lev Gudkov, presidente del centro sondaggi - non per niente lo chiamiamo il premier Teflon: le critiche non gli restano attaccate».
Ma nel week-end scorso, la protesta ha cominciato a serpeggiare: Vladivostok, Ekaterinburg, Mosca. Poche migliaia di persone, forse un’avanguardia che si rafforzerà se non si fermano i prezzi e non si riprende il rublo. Per la prima volta qualcuno chiede le dimissioni del premier, critica il Governo, una rabbia dal sapore antico. Sabato nell’ex piazza Majakovskij di Mosca sono tornate le bandiere dell’Urss, volti di anziani circondati dalla milizia: «La medicina contro la crisi - proclama un cartello - è la rivoluzione».