Gianluca Di Donfrancesco, Il sole 24 ore 3/2/2009, 3 febbraio 2009
CINA, 20 MILIONI VIA DALLE CITTA’
Venti milioni di cinesi abbandonano le città costretti a tornare nelle campagne, senza lavoro. Secondo i dati diffusi ieri da un’agenzia governativa, il 15,3% dei 130 milioni di immigrati provenienti dalle zone rurali è stato espulso da fabbriche e imprese colpite dalla frenata dell’economia. Non solo. La stessa agenzia stima che, considerando quanti entreranno nel mercato del lavoro quest’anno, il numero dei disoccupati nelle periferie del Paese potrebbe salire a 26 milioni.
La Cina segue la stessa sorte delle economie a forte vocazione all’export del Sud-Est asiatico: come in India, Corea del Sud e Giappone, la recessione e il calo dei consumi su scala globale stanno mettendo in ginocchio la sua industria manifatturiera, che a gennaio ha messo in fila la sesta contrazione consecutiva, distruggendo posti di lavoro al ritmo più sostenuto dal 2004.
Di fronte a questi numeri, Pechino trattiene il fiato: la recessione globale minaccia di materializzare il fantasma più temuto dal Governo, la perdita della stabilità sociale, il faro delle politiche economiche del Paese. Dal suo sito internet, il ministero per le Risorse umane ieri ha messo in guardia contro quello che potrebbe succedere in caso di ondate di licenziamenti e ritardi nel pagamento degli stipendi. A stretto giro di posta, esponenti dell’Esecutivo e del Partito sono scesi in campo per assicurare che sarà fatto di tutto per contenere l’impatto delle ristrutturazioni sulle condizioni di vita dei cinesi e per prevenire l’aumento della disoccupazione (secondo i dati forniti dal Governo, largamente sottostimati, il tasso dei senza lavoro nelle aree urbane era al 4,2% nel 2008). Nelle stesse ore, il Consiglio di Stato, nel suo primo intervento pubblico dell’anno, ha annunciato misure per garantire i redditi del settore agricolo, che dà da vivere a 750 milioni di persone.
In un’intervista sul Financial Times di lunedì, lo stesso primo ministro Wen Jiabao (in viaggio a Londra) ha promesso misure straordinarie per rilanciare l’economia e l’occupazione, dopo i 585 miliardi di dollari (4mila miliardi di yuan) già messi sul piatto. Wen ha sottolineato che Pechino farà quanto deve per assicurarsi una crescita del Pil dell’8% nel 2009, magari attingendo ai 2mila miliardi di dollari di riserve valutarie custodite nei suoi forzieri. Oggi l’economia è in piena frenata: l’ultimo trimestre del 2008 si è chiuso con una crescita del 6,8%, in calo dal 9% del trimestre precedente e mai così bassa negli ultimi 10 anni. Nell’intero 2008, il Pil è aumentato del 9%, contro il 13% del 2007. La Cina deve espandersi almeno a un ritmo del 7% annuo per garantire l’equilibrio sul mercato del lavoro.
Per raggiungere questo risultato, Pechino non esita a sacrificare l’equilibrio dei conti pubblici. Dopo aver chiuso il 2007 con un surplus di 173,9 miliardi di yuan, l’anno scorso lo Stato è entrato in deficit per 110 miliardi (16,23 miliardi di dollari), proprio a causa degli incentivi al sistema economico decisi a dicembre, quando la spesa pubblica è aumentata del 31% rispetto all’anno precedente. Nei primi undici mesi del 2008, i conti erano ancora in attivo per 1.224 miliardi di yuan.
I nuovi interventi annunciati da Wen non faranno che rendere più profondo il buco nelle finanze pubbliche, a partire dall’iniezione di 30 miliardi di dollari nell’Agricultural Bank of China (450mila dipendenti) e dalle spese già stanziate per costruire «una giusta rete di sicurezza sociale». Un prezzo ragionevole, agli occhi del Partito, che si gioca una posta altissima: nonostante la censura del regime abbia da qualche anno cancellato le statistiche sulle contestazioni sociali, nelle ultime settimane sono arrivate notizie di proteste e agitazioni e persino i taxi sono entrati in sciopero.