Bruno Ventavoli, La stampa 3/2/2009, 3 febbraio 2009
RANDAGIO E’ IL CRONISTA
L’uomo sano di mente di tanto in tanto sa chiudere col mondo. Il giornalista mai. Per vent’anni non c’è stato praticamente giorno della mia vita in cui non abbia scritto qualcosa», diceva Márai. E quel «qualcosa» potevano essere ponderazioni confessate a un diario privato, braci di un romanzo, ma anche e soprattutto articoli. Perché per oltre vent’anni Márai fu infaticabile elzevirista, cronista, articolista. Le prove migliori le raccolse egli stesso in libri. Ma la stragrande maggioranza dei servizi si smarrì nell’inevitabile macero della stampa. Dopo oltre settant’anni una casa editrice ungherese, Helikon, s’è messa a ripubblicarli. Proprio ora è uscito il secondo volume della serie, L’alba dei ciarlatani, che contiene il periodo 1928-1930, e speriamo che un giorno venga tradotto in italiano, perché talvolta quelle manciate di righe spremute in elzeviro valgono ben più di alcuni romanzi di tracimante scrittura.
Fu verso i 19 anni, quando abbandonò la natia Kassa e andò a Budapest durante la repubblica rossa dei Consigli, che Márai assaggiò il giornalismo, collaborando con i fogli furiosamente rivoluzionari. A rileggere gli interventi d’allora, ingenuamente leninisti, c’è da sorridere, pensando che trent’anni dopo sarebbe scappato inorridito da falci e martelli. Il padre, un po’ preoccupato dalla brutta piega che stava prendendo, dalle pessime compagnie bolsceviche che frequentava, lo spedì in Germania. Lui s’iscrisse all’Accademia di giornalismo a Lipsia. Bigiava le lezioni, era salace con la vecchia guardia dei redattori. Intanto bazzicava caffè, scopriva Kafka, e cominciava a inviare articoli ai piccoli giornali ungheresi di provincia. Lì per lì furono un espediente per giustificare alla famiglia il tempo speso a fare il bamboccione, poi divennero un bagno di realtà, un fondamentale tirocinio di scrittura. Con la sfrontatezza tipica dei ventenni, un giorno si presentò alla Frankfurter Zeitung, dove scriveva il Gotha della letteratura tedesca, Mann, Zweig, Hauptmann, e fu accettato tra i collaboratori.
Sapeva che in quel mestiere c’era un Kraus, che confezionava solitario la Fackel, o un Georges de la Fouchardière che pubblicava un articolo al giorno (gli dedicò un elzeviro), o coorti di cronisti squali, assetati di cronacaccia, scandali, bugie. Márai voleva essere un po’ come tutti loro, viaggiare, allargare gli orizzonti della vecchia duplice monarchia ormai dissolta, guardare, capire, raccontare. E trovò molte testate, in Germania, Ungheria, Cecoslovacchia, disposte a pubblicarlo e rimborsargli note spese.
Trascorse un decennio randagio per l’Europa e il Mediterraneo. Raccontò le capitali occidentali e il medioriente, intuendo che presto i coloni sionisti si sarebbero scontrati con gli arabi, e che l’Islam avrebbe risguainato la scimitarra. Nel febbraio del ”28 annuncia che Mussolini ha deciso di vietare al cinema, nei romanzi, sulla stampa il dettaglio di omicidi passionali. Basta suicidi per amore, delitti d’onore, donne tradite che massacrano mariti, perché tutto ciò può indurre pericolose imitazioni. E’ una pia illusione, spiega Márai, proibire le cattive notizie, istigare forzosamente all’ottimismo i media (il vizietto è ancora vegeto). «Forse che l’assassino riporrà in tasca il revolver carico, senza premere il grilletto, sapendo che i giornali non parleranno del suo omicidio?». No, la realtà, con la sua follia, la sua violenza, il suo scompiglio, non si lascia migliorare dalla pubblicità. Con la stessa coerenza, Márai ironizza su una riunione della lega contro l’alcolismo che vuole bandire vini e liquori dalle tavole dei parigini: riporta sconsolato le filippiche contro l’ebbrezza, e confessa che sgattaiola da quei saloni in riva alla Senna in cerca d’una bottiglia di Beaujolais.
Si muta in cronista sportivo per dire che ha assistito alla prima partita di calcio della sua vita, a Pest. S’annoia molto, sbaglia persino il numero dei giocatori in campo (scrive che sono 24), ma coglie invece l’entusiasmo della folla. Certo lo spettacolo è facile, coinvolgente, immediato, ma nei boati di quelle 40 mila persone non c’è solo tifo sportivo: è bisogno di libertà, di urlare all’aria aperta qualunque cosa, di potersi sfogare contro l’oppressione della crisi economica nell’Ungheria del Trianon e del regime di Horthy che controlla ogni aspetto della vita quotidiana, dall’arte alla politica alla morale.
Il Márai trentenne, sposato con la fida Lola, era dinoccolato, pallido, corvino di capelli, le palpebre un po’ spioventi come per uggia. Tutto lo interessava, dalle riunioni di spiritisti dove incontrava Conan Doyle agli incidenti stradali, dai concorsi di bellezza (ma è meno che tiepido su Miss Ungheria) ai piatti di lumache, dall’arte del pettegolezzo alle prime adunate naziste, dal riarmo dell’America ai clochard. Da Chaplin, a Tagore a György Lukács, «troppo intelligente, perciò sbattuto in prigione». E’ una miscela di febbrile avventurosità e di distaccato dandismo. Ogni articolo contiene questa duplicità di toni: sa essere un gazzettista che accantona lo snobismo intellettuale per accostarsi ocularmente ai fatti, ma al tempo stesso scrittore capace di cogliere in ogni particolare una scintilla dell’universale.
Quel mestiere era, per Márai, uno stato nervoso, un’ispirazione, una caccia. Intanto gli elzeviri si dilatavano in racconti, i racconti in romanzi. E la scrittura trovava il ricovero più duraturo del libro, rispetto alle pagine di giornali che la mattina dopo servivano a incartare pesci o sgrassare vetrine. Man mano che il talento gli veniva riconosciuto, Márai diradava quella attività quotidiana che aveva sempre considerata un po’ mercenaria, perché tirannizzata dai tempi frenetici della redazione. Voleva sì continuare a raccontare la vita, l’umana commedia, ma attraverso i mezzi della letteratura, che aspirava a ben altri decorsi.
L’attività pubblicistica si concluse nel ”44, quando i tedeschi occuparono l’ex alleata Ungheria. In quei mesi di rovine, Márai si dedicò sdegnato al solo giornale privato del proprio diario. Quando la guerra finì, volle ributtarsi entusiasta nella mischia, progettò libri, riviste, fogli. Ma il rais della cultura nella nuova Ungheria socialista bollò la sua prosa borghese come indegna e perniciosa. E fece mandare al macero il suo nuovo amato, meditato, sofferto romanzo. L’intellettuale era Lukács, lo stesso che lui aveva citato rispettosamente. Perché nell’umano mondo il caso, le ingiustizie, l’arruffio, spesso beffano i migliori elzeviri.