Valeria Fraschetti, La stampa 3/2/2009, 3 febbraio 2009
IL KASHMIR DICE NO ALLA BIRRA DEGLI INDU’
Spumeggiante come l’impero che possiede, Vijay Mallya è un uomo dall’intraprendenza straripante e dalla vulcanica esuberanza. Il volto barbuto del proprietario della birra indiana per antonomasia, la Kingfisher, finisce sulle pagine dei giornali tanto per i suoi colpi imprenditoriali quanto per la lunghezza degli yacht che acquista e lo sfarzo dei suoi party. Stavolta però l’ultimo progetto del navigato businessman, che ereditò dal padre la United Breweris Group trasformandola in 30 anni in un conglomerato globale a capo di oltre 60 aziende, sembra essersi arenato. Non per colpa del maremoto economico mondiale. Piuttosto per una maretta locale, benché feroce, che con il mondo degli affari non ha nulla a che spartire.
Non appena il nuovo governo del Kashmir indiano si è insediato a gennaio, portando al potere il giovane moderato Omar Abdullah, Mallya è volato a Srinagar con il suo aereo (tra le sue fortune c’è anche una compagnia di volo). Sbandierando l’amicizia di vecchia data che lo lega alla famiglia Abdullah, ha annunciato il suo progetto di espansione nella regione: piantagioni di luppolo sulle fertili colline kashmire. Niente di più auspicabile, verrebbe da pensare, per una regione a vocazione essenzialmente agricola, ma bisognosa di vitalizzare un’economia che marcia a singhiozzo. In più, l’offerta del patron della birra arriva proprio quando la campagna elettorale del National Conference, che ha fatto dello sviluppo il suo cavallo di battaglia, ha appena trionfato.
Invece, niente di più maldestro nell’unico stato indiano a maggioranza musulmana: gli islamici radicali, religiosi e politici, hanno posto il loro veto in men che non si dica. Il primo a scagliarsi contro la «disinvolta» idea è stato il Gran Mufti del Kashmir, Mian Bashirud-din sostenendo che «la coltivazione del luppolo è contraria alla sharia». Al suo veleno ha fatto eco quello di Aisiya Andrabi, leader del partito radicale Duktharan-e-milat e nota per le sue campagne contro i costumi «immorali» di Bollywood, che ha accusato Mallya di voler «trasformare il Kashmir nell’epicentro del diavolo». Mentre il dietrologismo di Syed Geelani, capo del partito separatista Hurryat, è arrivato persino a parlare di cospirazione del governo di Nuova Delhi. Le piantagioni di luppolo «fanno parte di un progetto che mira a indebolire l’acume intellettuale dei giovani - ha inveito - facendogli dimenticare la nostra causa per l’autodeterminazione».
Fino a vent’anni fa la pianta che dà alla bionda di Mallya l’amarezza giusta cresceva nel clima temperato della regione. Ma quando la guerriglia separatista, sponsorizzata da elementi pachistani, era deflagrata nel 1989 e i militanti avevano distrutto un impianto di lavorazione della UB, il barone dell’alcol aveva deciso di traslocare. Ora Mallya, evidentemente, pensava che in Kashmir tirasse aria nuova. L’affluenza alle urne a dicembre, in una regione abituata a dar retta alle sirene del boicottaggio, aveva raggiunto livelli che facevano ben sperare. A Srinagar l’affluenza è stata del 20%, contro il misero 5% registrato nel 2002. E invece, anche se l’alleanza moderata tra Congress Party e National Conference ha sbaragliato i radicali, gli estremisti islamici sono comunque stati in grado di imporre il loro niet. Tanto che anche il settimo uomo più ricco dell’India, con una fortuna che supera 1,2 miliardi di dollari, si è visto chiudere in faccia la porta dall’amico Abdullah. «Non siamo interessati al suo progetto», ha detto laconico il governatore.
Il governo precedente, guidato dall’attuale opposizione, era caduto a giugno per via delle proteste seguite alla decisione di cedere alla minoranza induista un terreno vicino al famoso santuario di Amarnath. Evidentemente, il leader del National Conference sa che andare contro i gruppi islamici può costargli quantomeno il posto.