Daniela Daniele, La Stampa 4/2/2009, 4 febbraio 2009
Che c’è di straordinario nel caso Englaro, se la scelta della desistenza terapeutica riguarda il 62% delle persone che muoiono nelle nostre terapie intensive? Se lo chiede Mario Riccio, l’anestesista che sospese la terapia respiratoria a Piergiorgio Welby
Che c’è di straordinario nel caso Englaro, se la scelta della desistenza terapeutica riguarda il 62% delle persone che muoiono nelle nostre terapie intensive? Se lo chiede Mario Riccio, l’anestesista che sospese la terapia respiratoria a Piergiorgio Welby. Spiega che, su 150 mila ricoverati, i decessi sono circa 30 mila e oltre 18 mila avvengono per decisione dei medici. E spesso le scelte vengono fatte in accordo con i familiari. Insorge Vincenzo Carpino, presidente dell’Aaroi, sindacato degli anestesisti e rianimatori. «Figuriamoci. Qual è quel rianimatore che ti viene a dire quanti casi del genere ha trattato? Non esiste. Non c’è nessuno studio nel nostro Paese che possa fare questi numeri. Secondo me, questa cosa non ha fondamento. E non credo che tutti questi decessi siano concordati con i parenti». Ma lo studio c’è. Lo ha condotto il Giviti, Gruppo italiano per la valutazione degli interventi in terapia intensiva, associato all’Istituto Mario Negri. Attraverso questionari anonimi su 84 centri italiani, il Gruppo fece un’analisi dalla quale emerse che più della metà delle morti avviene a seguito dell’ interruzione delle cure. I dati sono stati poi ottenuti con delle proiezioni. Dallo studio risulta che le famiglie danno il loro consenso nel 48% dei casi, ricostruendo la volontà espressa dal paziente quand’era in salute. Per gli altri malati, se non c’è alcun parente, sono i medici che prendono una decisione. «Vorrei sottolineare che le nostre terapie intensive sono tra le migliori al mondo - dice il dottor Riccio -: su 150 mila ricoverati, gravissimi, solo 30 mila muoiono. E che in questi reparti sono impossibili fenomeni di eutanasia, poichè ogni malato è costantemente monitorizzato e seguito da 4-6 operatori, che dovrebbero essere tutti d’accordo nel mettere in atto una pratica del genere». Si parla di pazienti il cui «processo di morte» è diventato inarrestabile. «Nelle 450 terapie intensive italiane - osserva Guido Bertolini, responsabile del Giviti - ogni giorno si deve decidere se e quanto insistere con i trattamenti. E dove non vengono praticate limitazioni delle cure intensive non muoiono meno pazienti, ma muoiono più tardivamente e, probabilmente, ”peggio”, con un inutile prolungamento dell’agonia». Un altro dato messo in luce dalla ricerca fa riflettere: i centri che non attuano la desistenza terapeutica hanno, paradossalmente, un tasso di mortalità complessivo più alto di quelli che la seguono. Come interpretarlo? «Sembra evidente che l’essere disposti a interrompere un trattamento - risponde Bertolini - è segno di attenzione al paziente in tutti i momenti della degenza. Direi che si tratta di un indicatore di qualità». Il senatore e medico Ignazio Marino ha ben presente la ricerca, esaminata in audizione al Senato. «Ricordo che in alcune situazioni si ricorre alla sospensione del respiratore automatico. I dati sono chiari e incontrovertibili: nel 62% dei casi, nelle ultime 72 ore di vita, il rianimatore decide di praticare la desistenza terapeutica, ovvero di sospendere gradualmente, le terapie». Il Giviti rileva che una terapia intensiva senza alcuna limitazione è stata assicurata al 37,8% dei pazienti, fino al momento del decesso. Nel restante gruppo si è avuta desistenza terapeutica. Ma per trattamenti giudicati «senza alcuna prospettiva di giovamento».