Maurizio Ferrera, Corriere della sera 1/2/2009, 1 febbraio 2009
LE TRAPPOLE DELLA FAMIGLIA ITALIANA
Il 2009 rischia di essere l’anno più nero dell’ultimo trentennio. La disoccupazione è in rapida crescita, soprattutto fra precari, giovani e donne. Chi aiuterà tutti coloro che restano senza reddito e non possono contare sui cosiddetti ammortizzatori sociali? La risposta è scontata: le loro famiglie. Nel nostro Paese la crisi sta accentuando fortemente l’importanza della famiglia come salvagente economico, come supplente di politiche pubbliche assenti o lacunose. E questa sindrome interessa soprattutto i ceti meno abbienti, per i quali non esiste quella rete minima di protezione che invece opera nella stragrande maggioranza dei paesi Ue.
I dati Eurostat parlano chiaro: i trasferimenti pubblici costituiscono appena il 15% del reddito delle famiglie più povere, di contro al 35% della Spagna o della Germania, al 44% della Danimarca e al 63% della Gran Bretagna. Se il capofamiglia è disoccupato, la percentuale italiana sale al 37%, ma in Germania sale al 50%, in Spagna al 62%, in Danimarca e Gran Bretagna supera il 70%. Negli altri Paesi è principalmente lo Stato che si fa carico di mantenere il reddito in caso di bisogno; in Italia è invece principalmente la famiglia, che deve mobilitarsi per sfruttare tutte le possibili risorse dei propri componenti (inclusi fratelli, nonne, zii e cugine).
I sondaggi d’opinione confermano la specificità italiana. Un’inchiesta Eurobarometro ha recentemente chiesto: «Chi vi potrebbe dare aiuto in caso di una emergenza economica »? Il 67% degli italiani ha risposto «un parente»: la percentuale di gran lunga più elevata di tutta l’Ue. Secondo l’istituto che ha realizzato il sondaggio, in vari Paesi la domanda suonava un po’ strana. Gli intervistati davano per scontato che in caso di bisogno fosse disponibile qualche schema pubblico (indennità di disoccupazione, sussidi per la casa, assegni per i figli, borse di studio e così via) e non capivano perché mai dovessero rivolgersi a parenti o amici. ovvio che la recessione avrà effetti negativi anche in questi Paesi. Viene tuttavia da chiedersi: quale sarà l’efficacia e quali gli effetti distributivi di una risposta essenzialmente familistica alla crisi - la strada italiana - rispetto alle risposte basate invece sul welfare pubblico?
Il familismo costa poco al bilancio dello Stato e al tempo stesso «integra» molto: nel senso che ancora le persone a micro-contesti di solidarietà informale e impedisce il loro scivolamento verso forme estreme di indigenza e di esclusione. Nel dibattito internazionale il modello sociale italiano è spesso elogiato per la flessibilità del sistema-famiglia nell’assorbire i bisogni dei suoi componenti. C’è pero un rovescio della medaglia, che rischia di produrre effetti particolarmente perversi proprio in tempi di crisi.
Il familismo genera molte «trappole». La divisione delle responsabilità domestiche penalizza le donne: nel nostro Paese viene ancora dato per scontato che siano le madri (mogli, nuore e così via) a farsi carico di tutte le esigenze di cura e dei mestieri di casa. Per i giovani, l’aiuto dei genitori ha spesso un prezzo elevato in termini di mancata autonomia: la casa d’origine può diventare una prigione, anche solo in termini di mobilità geografica. Non sempre poi la solidarietà domestica segue logiche di efficacia e di equità e può anzi condurre a scelte miopi sul piano economico e ingiuste sul piano distributivo. La recessione rischia di riattivare nel nostro Paese le dinamiche del «familismo amorale»: opportunismo, particolarismo, cattura di risorse attraverso tutti i possibili canali della parentela e della clientela. Da ultimo c’è da dire che, siccome nessuno di noi sceglie i genitori da cui nasce, un modello sociale che collega in modo così stretto le chance di vita degli individui ai loro contesti familiari finisce per assegnare troppa importanza al caso, alla cosiddetta lotteria naturale.
Perché l’Italia non è in grado di attivare una risposta alla crisi basata sul welfare pubblico? Non si tratterebbe, si badi bene, di ignorare o andare «contro la famiglia», ma solo di alleggerirne i carichi, fornendo sostegni complementari o (quando è giusto) alternativi a quelli dei genitori, in modo da contrastare effetti perversi e circoli viziosi. Cosa ci impedisce di seguire questa strada? La nostra spesa sociale è più alta di quella spagnola e di poco inferiore a quella inglese. Ma noi usiamo gran parte della spesa per pagare le pensioni: sette punti di Pil più della Spagna, quattro più della Gran Bretagna. Tolta la sanità, non resta molto per rispondere agli altri rischi del ciclo di vita. Anche le pensioni, si dirà, vanno alle famiglie. Giusto: ma vanno ai padri e ai nonni e rafforzano così le trappole del familismo.
Nell’inchiesta Eurobarometro, un quarto dei giovani italiani si dice convinto che «provenire da una famiglia benestante» è la cosa che conta di più per aver successo nella vita. Negli altri Paesi europei i giovani che la pensano così sono meno del dieci per cento. La crisi accentuerà quasi sicuramente questo divario. Senza incisive riforme gli squilibri generazionali (e quelli di genere) del nostro modello sociale sono infatti destinanti ad aumentare, aprendo nuove e preoccupanti prospettive di declino.