Pietro Citati, la Repubblica 31/1/2009, 31 gennaio 2009
LA LINGUA DEI POLITICI
Non ho mai conosciuto una condizione più commovente di quella a cui ho assistito nel febbraio 1987, a Mosca e a Pietroburgo, tra giovani professori e studenti universitari russi e redattori di case editrici. Erano i primi anni del governo Gorbaciov, quando egli tentava invano di riformare l´Unione Sovietica. La nuova dittatura era goffa, pesante, approssimativa, disordinata. I burocrati e i politici ubriachi venivano cacciati dai loro uffici. Non si poteva bere vino e vodka prima delle quattordici. In Georgia le meravigliose piante di uva bianca venivano sradicate, per mantenere i cittadini puri da ogni tentazione alcoolica.
I miei giovani amici erano felici. Pensavano che la grande baracca di cartone, sangue e chiacchiere, che portava il nome di Unione Sovietica, stava per crollare. Ogni giorno, senza frastuono ne cadeva un pezzo. Solo il borsc e il caviale conservavano il loro profumo. I giovani sognavano la libertà, immaginavano viaggi in Europa, consultavano carte geografiche, speravano che, fra pochi mesi, sarebbero diventati ricchi e liberi come i giovani occidentali. Guardavano i nostri vestiti, le nostre scarpe d´inverno, le macchine fotografiche; e mi facevano sentire colpevole, come appartenessi ad una falsa razza di superuomini. Avevano una curiosità insaziabile. Le guide dell´Ermitage tempestavano di domande: "Come è Versailles?", "E Brera?", "E Mantova?", "Quanti sono i Rembrandt a Amsterdam?", "E dove abitava il Bellotto in Polonia?".
Attentissime e sorridenti, con occhi che brillavano e scintillavano, le studentesse di Mosca volevano sapere come vivevano le ragazze di Roma e di Parigi. Come vestivano? E le scarpe? E i cappellini? Portavano i blue jeans? Cosa accadeva di là, in quell´altro mondo, che esse non potevano visitare?
Come erano i libri, i cieli, le passeggiate, le città? E gli europei cosa pensavano di loro? Furono felici quando un giorno risposi che i giovani americani, inglesi o italiani avevano i loro stessi pensieri e le loro sensazioni. Mi amarono perché avevo evocato un popolo giovanile immenso ed unanime, che abitava tutti i paesi del mondo. Purtroppo quei sogni non si realizzarono: il popolo di giovani rimase diviso; e gli europei non ebbero la minima attenzione per i giovani russi.
Sia in Urss sia in Italia, in quegli anni il linguaggio politico era diverso da quello di oggi. Gli uomini politici russi parlavano in un cupo staliniano-brezneviano, senza l´allegria feroce di Stalin. In Italia, il linguaggio politico era una strana mescolanza: qualche residuo togliattiano, qualche eco degasperiana, e soprattutto un complicatissimo e aggrovigliatissimo gergo avvocatesco-giuridico-burocratico. Era lo stile di Fanfani e di Moro. Parole difficilissime e tecniche, immensi archi sintattici, incisi vertiginosi, un´aria di vaghezza e di confusione. Gli elettori non capivano niente. Ma gli uomini politici non avevano alcuna intenzione di farsi capire: felicissimi del loro gergo, in cui scorgevano un segno di nobiltà e di separazione, trovavano che la lingua delle persone normali era volgare e ripugnante.
Nel febbraio 1987 arrivò a Mosca Amintore Fanfani, presidente del Senato italiano, che faceva una visita di cortesia a Andrei Gromyko, presidente del Soviet Supremo. Nel salone dell´Ambasciata italiana, Fanfani era circondato da una signora italiana ingioiellatissima, con ori, argenti, scollature, collane, orecchini, piume colorate, capigliatura fantasiosa: mentre le signore sovietiche non avevano un tocco di rossetto, né un briciolo di cipria, né una goccia di profumo. Un tempo, Fanfani era piccolo, nervoso e scattante: col passare degli anni si arrotondò, e ora somigliava a Kruscev: con larghi pantaloni cadenti, gli occhi furbissimi oscurati, e una raccolta di proverbi toscani.
Quando giunse il momento del brindisi, Fanfani si alzò col bicchiere. Parlò per un´ora. Qualsiasi cosa dicesse, il suo io si insinuava tra le parole, le tingeva, le faceva lievitare in un´ebbrezza euforica. Era ricercato, prezioso, ora ellittico ora ridondante. Mai sintassi mi è parsa così mostruosa. A sentirlo, il suo ego aveva dominato la storia moderna: la storia italiana, la storia russa, la storia europea; e tutti gli eventi erano usciti dalla sua mente. Vent´anni prima, aveva passato due giorni in una villa lombarda insieme all´ambasciatore sovietico, fecondando l´interlocutore con il suo genio - ed ecco Gorbaciov, l´ultimo figlio della sua intelligenza politica. Parlò del suo carissimo amico Giorgio La Pira (a Mosca perfettamente sconosciuto): disse cose complicate, infilò quattro proverbi toscani, e un periodo di quarantacinque righe. In quel momento l´interprete, che fino allora aveva navigato penosamente sul mare burrascoso dell´eloquenza italiana, non comprese più nulla, si interruppe, smise di tradurre, e pianse.
Gromyko si alzò subito dopo: vestito grigio, capelli grigi, occhi grigi, sopracciglia grigie, volto grigio, voce che aveva i sussulti e i cigolii di un carro armato. Con diplomatica freddezza, disse poche parole in staliniano-brezneviano. La cerimonia restò affidata all´ambasciatore d´Italia, Sergio Romano, con il pince-nez, l´orologio d´oro nel taschino del gilè, e i modi di Lord Palmerston in India. Fu elegantissimo: dopo Fanfani e Gromyko, pareva di essere trasportati alla Società delle Nazioni, nel 1933, tra squisiti e colti diplomatici inglesi e francesi.
Qualche anno più tardi, il linguaggio politico italiano mutò completamente. Nessuno avrebbe più compreso né Fanfani né Moro. Tutti parlavano, più o meno, allo stesso modo: salvo Umberto Bossi e la Lega, che dicevano: terùn, bingo-bongo, baluba, federalismo o morte, il popolo del nord innesta le baionette, la Lega ce l´ha duro; tutte cose che non facevano parte della lingua di una persona normale. Oggi gli uomini politici italiani parlano una lingua semplice, ma completamente formulare; ognuna delle parole o delle frasi è una sigla, che viene imparata a memoria e ripetuta da quattro milioni di persone. Ogni tanto una parola o una frase si esaurisce, e viene sostituita da un´altra. Quanto al resto della lingua - pane, vino, letto, correre, miele, vivere - non esiste. Sembra di abitare un mondo di computer parlanti, che si copiano a vicenda e posseggono il medesimo timbro di voce. Veltroni, Fassino, D´Alema, Fini, Casini, Berlusconi sono reincarnazioni, appena variate, della stessa persona.
Se un uomo politico vuol dire: "dobbiamo discutere" oppure "dobbiamo metterci d´accordo", non pronuncerà mai parole così elementari. Dirà: "mettiamoci intorno a un tavolo", con una metafora che illumina il suo viso d´orgoglio. Un´altra frase privilegiata é: "dobbiamo radicarci nel territorio", pronunciata con invidia verso la Lega, come fosse un´arte meravigliosa, che solo Bossi e Calderoli conoscono. Non è una cosa nuova: nessuno è mai stato "radicato nel territorio" come la mafia, la camorra e la ”ndrangheta.