Massimo Spampani, Corriere della sera 31/1/2009, 31 gennaio 2009
ANIMALI A COLORI, LI HA DIPINTI L’UOMO
Per quale ragione gli animali domestici – cani, gatti, mucche, cavalli, pecore – hanno pelliccia o mantello di differenti colori e disegni, mentre gli animali selvatici sono piuttosto «uniformi» e non presentano altrettanta varietà e «fantasia » all’interno della stessa specie? Una ricerca condotta sui maiali, ma estendibile a tutti gli altri animali domestici, ha dato una risposta che elimina molte altre supposizioni fatte prima che fosse possibile indagare il Dna con le sofisticate tecniche attuali.
Un’idea era quella che, una volta addomesticati, gli animali selvatici potessero dar libero sfogo alle varianti rispetto al loro colore prevalente, visto che, essendo accuditi dall’uomo, non dovevano più mimetizzarsi per sfuggire ai predatori. Qualcosa di analogo alla perdita della vista in animali che vivono sempre al buio delle grotte. Altri proponevano che nuovi colori e disegni fossero una conseguenza dell’addomesticamento pensando che alcuni geni che controllano il comportamento degli animali sottoposti a una forte selezione, influenzassero anche il colore del mantello. Invece non è così. Non basta la sola pressione selettiva naturale per spiegare il fenomeno: «Il nostro studio risolve la controversia, dimostrando che la prima causa è una selezione intenzionale operata dall’uomo » spiega Leif Andersson dell’Università di Uppsala (Svezia) a capo della ricerca.
E’ stato indagato il gene chiave che controlla la variazione di colore del mantello degli animali, indicato con la sigla MC1R, documentato in cavalli, gatti, volpi, maiali, pecore, cani. Lo studio ha messo a confronto maiali domestici con i progenitori selvatici (cinghiali) provenienti dall’Asia e dall’Europa. Sono state trovate numerose mutazioni presenti nel Dna sia della specie domestica che di quella selvatica solo che nei cinghiali le mutazioni sono «silenti», cioè non portano al cambiamento del colore del mantello. Il colore nero-bruno dei cinghiali resta tale perché è il più adatto al mimetismo.
Nella specie domestica invece quasi tutte le mutazioni del gene danno luogo a variazioni nel mantello che sarebbero state eliminate in un contesto naturale. Ma il loro successo è stato conseguenza dell’«incoraggiamento» a perpetuarsi dei caratteri nuovi fatto dal-l’attiva azione dell’uomo con la selezione. Per quale ragione? «Una spiegazione potrebbe essere che 10 mila anni, quando l’uomo cominciò ad allevare animali, fa era più facile governare il bestiame con un mantello che si identificava meglio – spiega Greger Larson, uno degli autori della ricerca – oppure che i primi contadini volessero privilegiare le differenze delle specie allevate rispetto ai loro parenti selvatici. Ma potrebbe essere che l’uomo, come accade anche oggi, sia stato attratto da quelle novità biologiche offerte casualmente dalla natura e ne abbia incoraggiato la diffusione». Come per altro è accaduto nella preferenza data al cavallo bianco o, in campo vegetale, alla diffusione globale dell’uva bianca. Ben diverso è il caso del mantello a strisce di tigri e zebre, che è l’espressione normale del gene che favorisce il mimetismo di questi animali.
Se paragonata ai lunghi tempi dell’evoluzione naturale, quella del colore del mantello, pur essendo in atto da migliaia di anni, è stata rapida. «In Mesopotamia – dice Larson – 5000 anni fa già esistevano sia animali da allevamento che da compagnia, bianchi, neri e chiazzati: non tanto diversi dal Chihuahua rosa di Paris Hilton».