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 2009  febbraio 01 Domenica calendario

«VELTRONI NON NE HA AZZECCATA UNA IMPARI DAL CAVALIERE A FARE IL POLITICO»


«Che Walter Veltroni sia il segretario del Pd è fuori discussione. Leader è un’altra cosa. del tutto evidente che nella leadership del partito si è aperta una crisi che richiede una soluzione nuova». Asserragliato nella sua turris eburnea, in Piazza Santi Apostoli, ex sede dell’Unione, Arturo Parisi si ostina a difendere l’ultimo avamposto ulivista, su cui oggi campeggia la targa ”Democratici”. Dal suo ufficio, che fu di Romano Prodi, in cui conserva lo spadino e tutti i suoi cimeli della Nunziatella, continua a fare a fette ”Uolter”. «Tra i 12 milioni di democratici non è certo impossibile trovarne uno che possa sostituirlo alla guida del Pd». Ma non sembra pensare a Renato Soru, il governatore uscente della Sardegna, che pure qualcuno immagina come il delfino dei prodiani...

Cosa ci sta a fare lei nel Pd?

«Dove vuole che cerchi di costruire il Pd se non ci provo nel partito che si chiama Pd? Se è vero che tra i miei pregi e difetti c’è la tenacia se non proprio la testardaggine, abbandonerò l’idea per la quale sono entrato in politica solo quando abbandonerò la politica».

Ma del Pd lei ha sconfessato il leader, la linea politica, il processo costitutivo. Non abita neppure al Loft. Non faceva prima ad andarsene e basta?

«I partiti debbono consentire al loro interno lo svolgimento della democrazia che propongono all’esterno. A maggior ragione deve farlo un partito che ha scelto l’aggettivo ”democratico” per definire la sua identità. Io faccio nel Pd quello che ritengo il Pd debba fare nel Paese».

Perché ce l’ha tanto con Veltroni?

«Perché non ha fatto quello che aveva promesso di fare e che insiste nel dire di aver fatto: la costruzione di un partito nuovo e democratico, che lavora per la democrazia del Paese».

Sicché per lei il Pd non è un partito nuovo.

«Questo non lo dico io, ma gli italiani. Se Veltroni ha scommesso che la sua novità attraesse elettori nuovi, poiché non è successo, dobbiamo riconoscere che questa novità non è riuscito a spiegarla. Io l’avevo segnalato subito che il Pd aveva in sé sin dalla nasciata i problemi esplosi dopo».

E perché il Pd non è neppure democratico?

«Perché non dispone di luoghi di confronto. Veltroni rivendica di essere stato eletto da 3,5 milioni di italiani alle primarie. Dimentica che in quella stessa occasione fu eletta assieme a lui un’assemblea nazionale. Peccato che nei fatti sia stata subito sciolta. Cosa direbbe se la stessa cosa fosse capitata al Parlamento o a un Consiglio regionale?».

Non si starà vendicando della caduta di Prodi?

«No. Queste cose le dicevo sin dal giugno 2007».

Lei ritiene che Veltroni abbia qualche responsabilità nella caduta del governo Prodi?

«Assolutamente sì, e non solo qualche».

Quali sono le sue colpe?

«Non essersi impegnato per risolvere i problemi e le indiscutibili tensioni che avevamo di fronte, preferendo investire sulla loro mancata soluzione».

Si può sapere cosa vuole lei dal Pd?

«Un partito che non sia riconducibile alla somma dei partiti precedenti e delle loro componenti, che riesca a convincere gli italiani di questa novità e a recuperare una quantità di elettori che gli consenta di competere contro il campo a noi avverso».

Con chi dovrebbe allearsi il Pd?

«Innanzitutto dovrebbe farsi carico di costruire intorno al suo programma l’unità del centrosinistra, come ha fatto Silvio Berlusconi dall’altra parte in questi 15 anni. Un partito non può affidare la sua identità agli alleati occasionali».

Reputa ancora opportuna l’alleanza con Di Pietro?

«Confrontarsi con tutti quelli che non sono alleati con la parte avversa, prima che una necessità è un dovere. Ma il confronto non comporta la condivisione, altrimenti si starebbe nello stesso partito».

Se Casini realizzasse il progetto del centro drenando pezzi del Pd, lei ci andrebbe? E a che condizioni?

«Io sono portatore di una posizione rigorosamente bipolare che non riconosce l’esistenza di un centro così come lo pensa Casini, che decide di volta in volta di allearsi secondo le convenienze».


Anche nella Margherita lei divenne la spina nel fianco di Francesco Rutelli quando lui strinse l’asse con i Popolari. Cos’è la sua, idiosincrasia per il leader o sindrome del professore?

« la difesa delle mie convinzioni. Sono stato per due anni il segretario di un partito che abbiamo sciolto, pur essendo al 7%, in nome del progetto in cui mi sento ancora impegnato. Siamo ancora qua a chiedere conto del credito che in tanti avevamo aperto prima alla Margherita e ora al Pd in nome dell’Ulivo».

L’unico leader in cui lei si sia mai riconosciuto è Prodi. Però, quando il suo governo era alle battute finali, girava voce che ci fosse freddezza tra voi. vero?

«Io e Prodi siamo amici da un numero imprecisato di anni. Come fanno le donne, non li conto perché sono talmente tanti che inizio a vergognarmene. Abbiamo condiviso un disegno. Il nostro è un rapporto tra adulti che hanno sempre dibattuto sul ”come”, ma non hanno mai messo in discussione il ”se”».

Ora come va tra voi?

«Benissimo. Viviamo nella stessa città, continuiamo a frequentarci come fanno gli amici. Ogni volta che è possibile».

L’ultima volta che l’ha visto?

«Sabato scorso».

Rosy Bindi ha detto che nessuno può parlare a nome di Prodi. Le sono fischiate le orecchie?

«La Bindi ha ragione. Prodi è sempre stato Prodi, Parisi è sempre stato Parisi. Non ho mai parlato a nome di Prodi».

La Bindi ha anche criticato il suo atteggiamento dicendo che lei, «limitandosi alla polemica e chiamandosi fuori dai momenti decisionali nella vita del partito, si preclude la possibilità di incidere».

«Pur avendo condiviso con la Bindi un passaggio che mi ha indotto a sostenere la sua candidatura alle primarie del Pd contro la linea di Veltroni, nel momento in cui lei non ha più sostenuto quella posizione, non ho potuto che prenderne atto».

Perché voi prodiani andate in ordine sparso?

«Lei lo chiama ”ordine sparso” io lo difendo come un valore, perché non siamo una corrente. Noi vogliamo che tutto il Pd sia ulivista, non che si costituisca una fazione ulivista nel partito».

Lei si considera un ”cattolico adulto” come Prodi e la Bindi?

«Adulto, ahimé, lo sono anche troppo. Mi considero un laico che proprio dalla sua formazione cattolica si sente chiamato ad assumersi personalmente le sue responsabilità».

La prima volta che Prodi andò sotto, sul voto fiducia, nel ”98, fu per colpa sua che aveva fatto male i conti.

«Chi conosce i fatti sa che è un’illazione. Quella fu una decisione che prendemmo assieme. Poiché col secondo governo Prodi siamo caduti allo stesso modo, dovrebbe essere chiaro che quello non fu un errore ma una scelta. Pur guidati da un’intenzione calunnniosa verso i dilettanti come me e come Prodi, i professionisti che misero in giro questa voce pensano che un governo non cade per errore, ma solo nel momento in cui è pronto a succedergli un altro governo e chi lo guida si è già assicurato un qualche futuro».

Ogni riferimento a D’Alema...

«Nessun riferimento. Noi semplicemente riteniamo che un governo debba nascere e morire per decisione degli elettori».

Lei ha condiviso ogni decisione del governo Prodi?

«Se rispondessi di sì, sarei un bugiardo».

Ha condiviso i Dico?

«Riconoscevo nei Dico lo sforzo più avanzato di farsi carico della necessità di riconoscere il valore della famiglia tradizionale e la libertà di tutti i cittadini di condividere progetti di vita in forme nuove».

Le coppie omosessuali hanno diritto di vedersi riconosciuto lo status di famiglia?

«Non ho nessuna difficoltà a sostenere che la famiglia tradizionale abbia connotati che la collocano su un piano diverso. Ciò non esclude che le coppie omosessuali possono veder riconosciuti diritti e libertà».

Che pensa dell’omosessualità?

« uno degli orientamenti sessuali esistenti che considero con rispetto, nella misura in cui non coinvolge valori e libertà altrui».

Come considera i gay nell’esercito?

«Nell’esercito il fenomeno esiste e i problemi legati alla convivenza vanno affrontati di volta in volta».

Lei che è stato ministro della Difesa, crede che i gay siano discriminati nelle Forze Armate?

«Veniamo da una cultura e da una tradizione che non riconoscono pari diritto all’omosessualità. Non è difficile immaginare che nella quotidianità i gay incontrino una difficoltà maggiore nelle Forze Armate, dove è coltivato il mito della virilità».

Lei è stato un ministro della Difesa più gradito agli avversari che ai suoi alleati della sinistra radicale.

«Io ho avuto delle incomprensioni con una parte limitata della mia maggioranza, ma mi è pesato moltissimo. D’altra parte molti dei sostegni che ho incontrato nel centrodestra erano ”pelosi”».

Come giudica il suo successore, Ignazio La Russa?

«Siamo arrivati alla Difesa da storie così diverse... Ma pur muovendo da posizioni diverse, e senza mai dimenticare che ora seggo tra i banchi della opposizione, nel suo impegno mi sentirà al suo fianco».

Che giudizio ha di Berlusconi?

« il leader dello schieramento a noi avverso».

Che fa, parla come Veltroni?

«Intenzionalmente», ride. «Ma preciso, ”il leader”, non semplicemente il ”maggior esponente”. E pur essendo lui guidato da una idea della democrazia per me inaccettabile, per me Berlusconi è anche il presidente del Consiglio, quindi mi rapporto a lui come qualsiasi cittadino si rapporta a una persona rivestita di responsabilità istituzionale».

Se Berlusconi avesse fatto come Barack Obama, che ha riconfermato Robert Gates, il ministro della Difesa di George Bush, lei avrebbe accettato?

«Se Berlusconi avesse operato in un sistema politico come quello americano, mi sarei sentito interpellato. Ma trovandoci di fronte a un presidente diversissimo da Obama, non avrei esitato a dire no».

Quanto le è servita la formazione alla Nunziatella nell’esperienza alla Difesa?

«Moltissimo. Mi ha consentito di mettere tra parentesi con grande facilità i 35 anni di attività di ricerca nell’Università e di riconoscere l’ispirazione, i sentimenti e il linguaggio di tutti gli appartenenti alle Forze Armate».

Un suo ex compagno di corso, Enzo Còncina, la ricorda «serissimo, molto colto, già professore, ma mai secchione».

«Mi riconosco. Cambierei il ”mai secchione”, troppo borghese, in ”scapocchione” ».

Lei al primo anno fu sottoposto alla ”prova del fuoco” dell’esplorazione dei sotterranei della Nunziatella. Cosa ricorda del suo ”battesimo” militare?

«Rivendico un primato: penso di essere stato il primo del mio corso che, attratto dalla trasgressione, cedette alla tentazione di esplorare le ”segrete” della Nunziatella».

Cosa trovò lì sotto?

«Una volta, essendomi perso senza pila, sperimentai che può capitare si sentirsi salvati scoprendo di essere caduti in una tomba, perché toccando con le mani nel buio pesto riconobbi la tomba del monaco gesuita che era stato sepolto lì e ritrovai la via d’uscita».

Anche lei usava quei sotterranei per le fughe notturne?

«No, anche perché confesso che non avrei saputo dove andare. La trasgressione dell’esplorazione era un fine in sé».

 mai finito in cella di rigore?

«Una volta. Ricordo che era estate, siccome non c’erano coperte che noi piegavamo a soffietto trasformandole in un giaciglio, dovetti dormire su un tavolaccio».

Mai fatto atti di nonnismo?

«No, perché, a causa del crollo di una palazzina ci fu un restringimento del corpo dei ”cappelloni”, ovvero le nuove leve».

Mai subìto atti di nonnismo?

«Lo spegnimento di una sigaretta sulla mano di cui mi sembra di riconoscere ancora le tracce».

Il fratello di Enzo, Tony Còncina, dice che lei non ha mai perso un evento dell’associazione degli ex allievi e ha sempre indossato la cravatta della scuola da ministro nelle occasioni topiche. Anche lei fa parte della ”lobby” della Nunziatella.

«No, è solo un’amicizia trasversale».

Come è stata la sua infanzia?

«Finita a sei anni, quando davanti al cadavere di mio padre mi dissero che da quel momento il capofamiglia ero io».

Conserva un ricordo di lui?

«Le sue foto da ufficiale e i racconti si sovrappongono nella mia memoria».

Sua mamma che tipo era?

«Affettuosa ed estroversa, ma radicalmente trasformata nel momento in cui si trovò a dover svolgere il ruolo di madre e di padre».

Lei crebbe nella famosa parrocchia San Giuseppe di Sassari, che annoverava tra i suoi parrocchiani due futuri presidenti della Repubblica (Antonio Segni e Francesco Cossiga), l’uomo che avrebbe guidato il Pci (Enrico Berlinguer), un ministro dell’Interno in nuce (Beppe Pisanu), Luigi Manconi, Gavino Angius...

«Ha orientato il mio destino, ho guardato nella direzione in cui guardavano quelli che mi circondavano. Se la mia comunità si fosse interessata della produzione di mattonelle, a quest’ora forse sarei un industriale».

Nel ”66 lei e Manconi diffondeste un volantino nelle chiese di Sassari contro l’intervento Usa in Vietnam. Vi costò una sonora tirata d’orecchie del Vescovo.

«Erano i tempi in cui ero ancora vicepresidente nazionzale dei giovani di Azione cattolica. Ma fu un episodio isolato».

Anche da piccolo doveva essere una peste. Cossiga racconta a tutti che, in casa di Giagu de Martin, ras sassarese della Dc, lei si ostinava a scorrazzare intorno al braciere e lui la prese sulle ginocchia ammonendola: «Artullo, Artullo, attento che ti bruci il cullo!».

«Non riesco a immaginarmi sulle ginocchia di Cossiga. Si sommano episodi diversi nella sua memoria. Mi sono scottato con altri bracieri ma non con quello».

Come si divertiva?

«Perlustravo il perlustrabile facendo trekking, campeggio, canoa...».

Mario Segni racconta che, durante i campeggi che facevate sul monte Limbara, lei spariva giorni e giorni in escursione.

«Ho fatto a piedi tutta la costa settentrionale della Sardegna, una lunghezza prossima ai mille chilometri».

Su quel monte costruì un albergo un medico sassarese che poi divenne suo suocero.

«Sì, ma ciò avveniva in tempi non sospetti».

Quando conobbe sua moglie?

«Anna posso dire di conoscerla da sempre, essendo allora la mia dirimpettaia. Ma all’inizio la vedevo senza guardarla. Poi capita che uno si applichi con più attenzione e da uno sguardo si finisce sull’altare».

Ci sapeva fare con le ragazze?

«No... Prima l’ambiente militare, poi quello cattolico, diversissimi da quelli attuali, mi consentirono con l’altro sesso solo un rapporto a distanza. Come vede, anche per trovare mia moglie non ho fatto troppa strada».

Segni racconta che la vostra passione civile esplose all’università quando, durante le elezioni degli organismi direttivi, beccaste con le mani nel sacco il vostro avversario che tentava di fare brogli.

«La politica universitaria era una forma precocemente degradata di quella che poi sarebbe stata la dissoluzione dei partiti. Dovemmo scegliere se gareggiare sullo stesso livello o prenderli di petto. Decidemmo di prenderli di petto».

A proposito di elezioni, cosa succederà dopo le Europee?

«Che il Pd si trovi in difficoltà è ampiamente riconosciuto. Quello che non riesco ad accettare è che, non solo le Europee non hanno al loro centro l’Europa e sono ancora una volta elezioni che guardano all’Italia, ma che nel nostro caso rischiano di trasformarsi in un congresso di partito».

Da dove verrà il futuro leader del Pd?

«Bisognerà cercarlo dappertutto, senza limitarsi alla piccola conventicola degli attuali capi del partito».