Fabio Carducci, Il sole 24 ore 1/2/2009, 1 febbraio 2009
GOVERNO BATTE PARLAMENTO 44 A 1
«Il Parlamento può fare tutto, tranne che mutare l’uomo in donna, o la donna in uomo», dicevano gli avvocati inglesi alla fine dell’Ottocento. Nella variante di William Blackstone: «Il Parlamento può fare qualsiasi cosa che non sia in natura impossibile». Sono passati poco più di due secoli, ma in termini politici sembra un’era geologica. Oggi, in Italia, il capo dello Stato ricorda periodicamente al governo che non può procedere a colpi di decreto. E il presidente della Camera è costretto a rimarcare che «il rispetto del Parlamento non si limita all’omaggio del lavoro fatto in commissione, impedendo ai deputati di pronunciarsi in Aula». O a bacchettare il ministro per i rapporti con il Parlamento per essersi presentato al "question time" in Aula con 40 minuti di ritardo. Un’imperdonabile mancanza di riguardo? Non si tratta solo di bon ton istituzionale.
La sostanza è che, su 45 leggi approvate nell’attuale ancor giovane legislatura, 44 portano la firma del governo. Di queste, 25 sono conversioni di decreti legge (quasi il doppio del Governo Prodi a parità di tempo). E con la conversione del decreto anti-crisi il governo Berlusconi ha raggiunto quota 11 voti di fiducia, raggiungendo Prodi, che tuttavia aveva come attenuante una maggioranza non esattamente granitica, quale è invece quella su cui può contare l’attuale governo. I decreti emanati da Berlusconi nei primi otto mesi sono stati 30, contro i 16 di Prodi (si veda il «Sole-24 Ore» del 20 dicembre e del 15 gennaio). Il Parlamento è riuscito a proporre e ad approvare finora una sola legge.
Fini non è solo in Europa. Se infatti in Gran Bretagna la tradizione regge, in Germania, per esempio, il federalismo costringe ogni giorno il Bundestag a fare i conti con i veti dei singoli Laender. Mentre è di questi giorni, in Francia, lo scontro senza precedenti tra l’opposizione parlamentare e l’Esecutivo, che vuole limitare il dibattito su alcuni emendamenti. Da qualche decennio la perdita di centralità dei Parlamenti ha subito un’accelerazione nella maggior parte delle democrazie mature, come in Italia ha rilevato per primo Norberto Bobbio. E questo accade, paradossalmente, anche a causa della democrazia, o per meglio dire, dei nuovi soggetti attraverso cui la democrazia si è sviluppata.
Hanno iniziato i partiti, nel senso della "partitocrazia" che rischia di relegare le assemblee elettive a un ruolo notarile. Hanno continuato le lobby e i sindacati, attraverso la concertazione o il dialogo sociale. Poi è arrivato il "terzo settore" con il ruolo crescente della sussidiarietà. Le authorities indipendenti, che in Italia sono passate da zero (se si esclude la Banca d’Italia) a una decina in meno di un quarto di secolo. Le organizzazioni sovranazionali, dall’Unione europea all’Onu: tutti attori che siamo abituati a considerare fondamentali protagonisti della scena democratica, ma che hanno sottratto ciascuno la sua gemma alla corona delle istituzioni rappresentative.
Altri due usurpatori, invece, sono figli della globalizzazione: le potenze "globali" o regionali, le grandi imprese transnazionali. La letteratura internazionale sull’argomento, ormai, riempie una biblioteca. Una sintesi efficace la offre Francesco Galgano, giurista e professore emerito all’Università di Bologna, autore di una recente «storia del principio di maggioranza» (La forza del numero e la legge della ragione, Il Mulino). «Ci sono – spiega – due fenomeni da considerare: il fatto che il Parlamento all’interno dei singoli Stati tenda a perdere importanza rispetto ad altre istituzioni come il governo è il riflesso di un fenomeno più vasto: la gente avverte sempre più l’importanza che le funzioni pubbliche siano esercitate da chi è competente, da "chi se ne intende", diceva Bobbio. Invece le assemblee elettive sono considerate come non idonee ad assumere le decisioni incisive e tempestive richieste oggi. Di qui lo sviluppo delle autorità indipendenti e delle corporazioni, ossia le istituzioni che rappresentano in maniera diretta le articolazioni sociali e i loro interessi particolari».
E a proposito di "chi se ne intende", tra i sospetti scippatori di sovranità popolare sono schedati anche i tecnocrati, i "professori" cui la politica è sempre più spesso costretta a delegare le riforme che la crescente complessità del mondo impone.
Ma una parte della sovranità parlamentare è fuggita all’estero: pluri-indiziata, la "globalizzazione". Non c’è dubbio infatti che noi soffriamo, sottolinea Galgano, «quel fenomeno della perdita di centralità di tutte le istituzioni democratiche, il quale deriva dal fatto che la rappresentanza politica dei piccoli Stati ha scarsa capacità di incidere sulla realtà, perché la realtà è sempre più transnazionale. Mentre i poteri istituzionali sono poteri locali». Che ciò valga per la crisi è ormai un luogo comune, ma merita ricordare che in campo economico hanno rubato la scena agli eletti del popolo, oltre alle grandi imprese transnazionali, anche altri soggetti privati come le società di auditing. «Mentre una volta lo Stato aveva l’ambizione di condizionare la politica economica e finanziaria – ironizza Galgano – ora il prestito pubblico, e la conseguente capacità di intervento politico, dipendono dalla disponibilità delle società di auditing a esprimere parere favorevole».
Lunga è dunque la processione dei pretendenti, se non al trono, almeno a un pezzettino dello scettro che gli elettori hanno affidato al Parlamento. Da un certo punto di vista, osserva Galgano, è la rivincita del principio storicamente antagonista rispetto a quello democratico di maggioranza: «Il principio tecnocratico della "valentior pars", che alle ragioni del numero contrappone la legge della ragione». Se nel Medioevo questi due principi si scontravano, nell’attuale società politica sono destinati a convivere. Come lo sono gli organi costituzionali che li incarnano: Governo e Parlamento.