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 2009  febbraio 01 Domenica calendario

LA DONNA PIU’ FORTE DELLE VALANGHE


Il metodo Munter
Valuta il rischio di valanghe dividendolo in tre fasi che sono basate sulla successione nel tempo: pianificazione a tavolino dell’escursione, scelta dell’itinerario sul terreno, valutazione morfologica del pendio. Se si percorrono solo i pendii che hanno superato tutti e tre questi filtri, allora il rischio può diventare accettabile.
Imparare da bambini
A Courmayeur la Fondazione Montagna Sicura da alcuni anni organizza corsi per bambini. Si fa sentire loro il peso della neve, col metodo delle palle si fa capire la diversità: umida, secca, trasformata. Il riferimento principale nell’arco alpino, in tema di neve e valanghe, è l’Aineva: organizza corsi di vario livello.
«Ho sentito fortissima la pressione della neve che mi schiacciava. Non mi rendevo conto se ero a testa in giù, se avevo perso gli sci, ho ”nuotato” come insegnano i manuali per galleggiare nella massa in movimento. Poi sono svenuta, sotto un metro di neve per dieci minuti». Margherita Maggioni ha 35 anni, è una sopravvissuta da valanga. A rendere unica quell’esperienza è il suo lavoro: ricercatrice universitaria che studia proprio la dinamica delle valanghe, al Laboratorio neve e suoli alpini della facoltà di Agraria di Torino.
Un’esperienza sul campo certo non voluta. Ma preziosa. Margherita abita a Lillianes, valle di Gressoney, è una scialpinista di lungo corso, compagna di Marco Zaninetti, guida alpina. Sono stati rapiti da una «strega bianca» un anno fa, alle 11,40 del 14 gennaio 2008, a 2400 metri. Il silenzioso altopiano dello Zube, nella zona di Alagna Valsesia, è stato rotto da un sibilo. Era il segnale della massa nevosa che si stava staccando.
Momenti di terrore
Margherita ricostruisce quei minuti: «Da Alagna eravamo saliti al passo dei Salati, era segnalato un grado 4 di pericolo valanghe. Eravamo consci del rischio, ma conoscevamo il percorso e il giorno prima avevamo sciato su pendii simili per esposizione e pendenza. Eravamo in sette, tutti amici, tutti esperti, tutti con l’Arva. C’era nebbia, abbiamo sbagliato il percorso. Per tornare su quello giusto abbiamo attraversato un pendio dov’era presente un distacco del giorno precedente. Abbiamo seguito le procedure di sicurezza: si parte uno per volta, ci si tiene a una distanza tale da essere sempre a vista. E’ partito Marco, dopo un tratto mi ha dato il segnale per raggiungerlo. Appena ho dato al terzo sciatore il segnale, ho sentito che la neve sotto di me si staccava, la valanga partiva. Ho urlato e chi mi seguiva si è fermato».
Sono attimi di terrore per il gruppo. «Il terzo sciatore, coinvolto ma non sepolto - spiega Margherita - mi ha trovato in brevissimo tempo, ha piantato uno sci nel punto dov’ero sommersa e ha continuato a cercare Marco. Il resto del gruppo l’ha raggiunto, hanno iniziato a scavare. Il mio compagno sentiva le voci: ”Stai tranquillo, siamo in cinque”. Non è andato in ipossia. Ma dev’essere stato pesante dal punto di vista psicologico: si era accorto che ero stata coinvolta anch’io, e sapeva che ero incinta».
A posteriori subentra la razionalità, il filtro della ricercatrice: «Ci è andata bene, per fortuna la valanga era di neve fresca, leggera, non ancora compatta. E il gruppo sapeva come muoversi: è l’autosoccorso che ci ha salvati, sono stati velocissimi. I dati dicono che entro 15 minuti c’è il 90% di possibilità di sopravvivere. Tutto è finito bene e ora posso ricordare l’esperienza con un figlio in braccio».
«Come nuotare»
C’è il trucco, il modo di cavarsela. Ma non è facile, e Margherita lo sa: «Ripensandoci mi viene in mente l’immagine con cui nei corsi si spiega ai bambini la valanga e gli si dice: pensate di nuotare in piscina e poi, tutto in un momento, l’acqua si ghiaccia. Poi il trauma fa dimenticare, cancella. E’ come se quell’esperienza l’avesse vissuta qualcun altro. Si recupera, si vive meglio la vita, si apprezzano tutti i momenti. Ho ricominciato in modo costruttivo, anche a sciare, senza paure. Ma penso che non potrò sopportare un altro spavento di quel tipo».
La domanda nasce spontanea, e inevitabile: essere travolti da una valanga è sempre conseguenza di un’imprudenza di chi scia fuorispista? La risposta di Margherita è articolata: «Sono tornata sul posto qualche giorno dopo, non c’era molto da capire. Mi sono servite le foto scattate dai soccorritori. I rischi? C’è ancora tanto di imponderabile in tema di valanghe. Si consulta il bollettino regionale. Poi si scende nel locale e si possono sommare i dati, analizzare il meteo, le condizioni della neve. Però non è una questione matematica, conta l’esperienza. Direi che è decisiva».
Poi ci sono alcune regole per la prevenzione del rischio, una sorta di studio a tavolino per andare in montagna con minori rischi. «In letteratura scientifica si cerca di schematizzare - osserva la ricercatrice -, è conosciuto e applicato regolarmente il metodo del 3x3, proposto da Munter. Divide il processo di valutazione globale del pericolo valanghe in tre fasi, basate sulla naturale successione nel tempo: pianificazione dell’escursione a tavolino, scelta dell’itinerario sul terreno, valutazione morfologica del singolo pendio. Questa strategia è stata studiata per ottenere un livello di sicurezza accettabile, anche con informazioni lacunose o contraddittorie per valutare la stabilità di un pendio. Come dice Munter, se si percorrono solo quei pendii che hanno superato tutti e tre i filtri, allora il rischio residuo è umanamente accettabile. Ma non c’è uniformità nell’applicazione, da noi si applicano criteri diversi da quelli che usano gli svizzeri».
Il fuoripista
Il grande pubblico dello sci ha adottato il freeride, il fuoripista alla ricerca dell’impresa, delle emozioni forti. E’ una nuova passione supportata da una «cultura della neve»? I dubbi ci sono, e Margherita li conferma. «Dipende da come questo nuovo pubblico arriva alla pratica del fuoripista. In funivia mi ha fatto piacere sentire alcuni sciatori che ammirando un pendio vergine di neve fresca si rendevano conto del rischio e discutevano se affidarsi a una guida alpina per non avventurarsi da soli. Ma sono ottimista, mi sembra che stia aumentando la sensibilità nei frequentatori della montagna. Me lo confermava il professore Freppaz, quest’anno ha visto raddoppiare gli iscritti ai suoi corsi di studio delle valanghe».
Ma se un cittadino da week end volesse costruirsela questa benedetta «cultura della neve», da dove dovrebbe partire? «Chi si avvicinava allo scialpinismo assumeva una guida e così apprendeva nozioni e comportamenti base fin dall’inizio. Ora ci sono corsi tenuti dalle società di guide, e nell’arco alpino sono attive molte associazioni che svolgono questa didattica con scrupolo».