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 2009  febbraio 04 Mercoledì calendario

GENE GNOCCHI SE MAI AVRO’ UN NIPOTE


Gene Gnocchi, nome vero Eugenio Giozzi, 54 anni a marzo, parla forte e strascicato, come in televisione.
In una famiglia con cinque fratelli e una sorella, alzare il volume dev’essere una strategia di sopravvivenza. La trattoria «Il Duomo» di sua mamma Adriana, nel centro di Fidenza (Parma), è stata trasformata in un set fotografico. Incasinato. Tra fratelli con nipotini in braccio che passano a salutare, e la sorella Elena, coinvolta come comparsa, che fa finta di versare il vino. Rosso e vero, però. Come veri sono i salumi: «E adesso che li ho affettati, bisogna mangiarli», dice Adriana. Così, mentre facciamo l’intervista, al centro della sala si allestisce un banchetto: si beve, si mastica e si parla rigorosamente ad alta voce. Gli altri. Perché Gene Gnocchi, davanti al registratore, cambiavoce e, cosa più sorprendente, pure faccia. Quando racconta del padre, morto una ventina di anni fa, dei suoi tre figli (Ercole, 25 anni, Silvia, 22 e Marcello, 15) e della grande famiglia, composta da otto nipoti, gli viene fuori un’espressione strana: una specie di sorriso compiaciuto he non ha il coraggio di aprirsi, e finisce per arricciarsi in un broncio commosso.
Torna normale quando l’argomento è il lavoro. In queste settimane, il teatro. Chiusa la seconda stagione di Artù su Raidue, e in attesa che - forse - in primavera parta un nuovo programma su La7, Gnocchi debutta il 30 gennaio a Bologna con un nuovo spettacolo: Cose che mi sono capitate. «Ovvero i fatti che il mio personaggio ha ossessivamente catalogato nella mente per tutta la vita», spiega.

Parliamo, invece, delle cose che sono capitate a lei. A partire dalle sue origini.
«Mi chiamo Eugenio perché era il nome di mio nonno. Mio figlio, il primogenito, si chiama Ercole perché era il nome di mio padre. Sono fidentino da generazioni, per lavoro mi tocca spostarmi, ma mi piace l’idea di tornare sempre qui».

Ricordi di infanzia?
«Fantastici, Grazie anche al mio maestro delle elementari. Pensi che ci faceva fare i film, persino in costume. In uno sugli antichi romani interpretavo Muzio Scevola (fa il gesto di tendere il braccio sul braciere). E le ultime due ore del sabato si giocava a tombola. I premi ce li metteva lui, di tasca sua».

Passiamo alle medie.
«In terza misi gli occhi su quella che sarebbe diventata mia moglie. Ci fidanzammo l’anno dopo, in quarta ginnasio. Oltre a essere compagni di classe, abitavamo nello stesso palazzo. Un giorno, ci incontrammo in ascensore. Le diedi un bacio all’improvviso, credo tra il secondo e il terzo piano».

Sulla guancia o sulla bocca?
Mette il dito all’angolo delle labbra.

Da allora non vi siete mai persi di vista?
«Solo un anno, in seconda liceo. Giocavo a calcio e fui acquistato dall’Alessandria, che allora era in C1 ».

Per il resto, stessa classe, stesso banco? Vicino alla sua futura moglie.
«No. Ero seduto dietro per ragioni strategiche: mi passava le versioni di greco e latino. Anche l’università l’abbiamo frequentata insieme, Giurisprudenza tutti e due. Lei, poi, è diventata dirigente dei Comune di Parma. Ha dovuto smettere per i figli, ma da quattro, cinque anni ha ricominciato a lavorare come consulente legale dell’Adiconsum».

Lei, invece, prima di diventare comico è stato avvocato.
«Per cinque anni. Il problema è che, in provincia, ti occupi sempre delle stesse pratiche. Alla fine si tratta di compilare fogli».

Veniamo all’attuale lavoro. Il debutto in Tv risale giusto a vent’anni fa, nel 1989: Emilio con Zuzzurro e Gaspare, Italia I.
«In realtà, il vero debutto avvenne qualche mese prima, nella riedizione di Lascia o raddoppia? con Lando Buzzanca. Facevo un poeta cecoslovacco. Un disastro: dopo due puntate "segarono" i comici».

Da uomo tutto lavoro e famiglia, come investe i suoi soldi?
«Robe bancarie ho un amico che conosco da quando eravamo bambini, e che mi ha sempre consigliato bene, qualche appartamento pensando ai figli, e un po’ di terreni. Una parte erano di mio papà, una parte li abbiamo comprati dopo».

Lei ha detto che la morte di suo padre è stato il più grande dolore della sua vita.
«Se ne andò nel giro di due mesi, per un tumore al pancreas. Alla sua morte, ci rendemmo conto che la situazione economica della famiglia non era delle migliori. Aveva fatto sacrifici per tutta la vita in modo da dare a ogni figlio la possibilità di coltivare i propri interessi. Un altro, al posto suo, mi avrebbe detto: "Vedi di portare a casa uno stipendio, che c’è bisogno". Lui no. E a chiedere aiuto ad altri non ci pensava proprio. Diceva: "I favori preferisco farli piuttosto che riceverli". Un insegnamento eccezionale».

Che lavora faceva?
«Sindacalista. Era segretario della Camera del lavoro di Parma».

L’ha mai portata con sé alle assemblee, alle riunioni sindacali?
«Eccome. Il giorno in cui i miei compagni facevano la cresima, io ero con lui al congresso della Cgil. Mio padre era ateo. Dei suoi figli, sono l’unico ad aver ricevuto il battesimo per via di mia nonna, che mi portò in chiesa di nascosto».

Incontri particolari?
«Con Franco Basaglia (psichiatra, ispiratore della legge che sancì la chiusura dei manicomi tradizionali, ndr). Veniva spesso da noi perché mio padre era stato nominato presidente dell’ente manicomi della zona. E Luciano Lama (storico segretario della Cgil, ndr), durante una riunione a Parma. All’inizio degli anni Sessanta, papà sarebbe dovuto diventare deputato, invece lasciò il Partito comunista per disaccordi con l’allora segretario Palmiro Togliatti. Smise di fare il sindacalista e diventò rappresentante di una ditta cecoslovacca che produceva villette prefabbricate».

E una battuta?
«E’ la verità. Dopodiché, assemblando un paio di quelle villette, mise su un ristorante davanti alle terme di Bacedasco, nel Piacentino: duecento coperti. Io servivo ai tavoli».

Da sindacalista a ristoratore: una scelta bizzarra.
«Papà era una persona bizzarra. Ci portava in vacanza solo nei Paesi dell’Est: Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Ungheria... Ci trascinava a vedere i documentari sovietici: me ne ricordo in particolare uno sui castori, una rottura di balle pazzesca. Era innamorato della Russia, adorava Dario Fo, il russo Yashin, manco a dirlo, era il portiere più bravo del mondo, e Majakovskij un genio della letteratura. Mio padre era uno che aveva fatto sei figli, ma che si era comprato una Duetto (sportiva Affa Romeo a due posti, ndr). Lo adorai anche per questo». Anche lei è un padre bizzarro? «No, non credo. Di certo con i miei figli sto benissimo. Mi prendono per il culo, mi fanno ridere, insomma, mi piacciono, mi piacciono da impazzire. Mio padre diceva: "Ai figli si può solo voler bene". Non so se sia un metodo, però funziona».

Se le piacciono così tanto, come mai si è fermato a tre?
«Mia moglie, purtroppo, ha avuto tutti parti cesarci. Non avrebbe potuto affrontarne un quarto».

Nonno non lo è ancora diventato, vero?
«E chissà se lo diventerò. I miei figli stanno così bene con noi che non so se decideranno mai di andarsene. Ercole fa il deejay e torna a casa alle sei del mattino. Finché non rientra, non riesco a addormentarmi. "Quando avrai figli, ti renderai conto di che cosa vuol dire", gli dico. Mi risponde: "lo figli non ne avrò mai"».

Le dispiace?
«Un nipotino che si chiama Eugenio, come me... Sarebbe bello, certo».

E, a questo punto, sulla faccia di Gene Gnocchi appare un super broncio.