Giacomo Amadori, Panorama 5/2/2009, 5 febbraio 2009
A Parigi hanno applaudito l’asilo politico concesso dal Brasile a Cesare Battisti, fuggito dalla Francia nel 2004 alla volta di Copacabana
A Parigi hanno applaudito l’asilo politico concesso dal Brasile a Cesare Battisti, fuggito dalla Francia nel 2004 alla volta di Copacabana. Per esempio Tomàs, 20 anni, studente in legge. Ha gli occhi chiari della madre e vive in un palazzo lìberty sulla Rive gauche. Scende di corsa lo scalone di marmo con corrimano in ferro e raggiunge il cronista alla porta. Lo squadra come se fosse un fantasma: «E’ la prima volta da quando sono nato che qualcuno tira fuori il passato di mia madre. Quella pagina per noi è girata». La madre è Paola Filippi, 56 anni, padovana, «emigrata» a Parigi nel 1982, ex compagna di lotta di Battisti, condannata in via definitiva dal tribunale di Milano a 23 anni per banda armata e concorso in omicidio. Oggi fa l’interprete e l’aiutopsicologa negli ospedali (ha dato qualche esame ai tempi della lotta armata). Nella capitale francese gli ex terroristi sono una piccola comunità: in base agli elenchi più aggiornati (qui sotto quello dei Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), i latitanti di estrema sinistra residenti in Francia incolpati o già condannati per reati legati all’eversione sono una quarantina. Per dieci di loro lo Stato italiano ha chiesto l’estradizione. Dunque non c’è solo il caso Battisti. Per esempio oltralpe vivono alcuni suoi vecchi compagni dei Proletari armati per il comunismo che hanno preferito la fuga al carcere. Tra questi Luigi Bergamin, ideologo dei Pac, condannato a 26 anni di reclusione. La Francia ha rifiutato la sua estradizione e lui continua a fare il traduttore a Metz. Non rischia il rimpatrio neppure Filippi, naturalizzata francese grazie al matrimonio. Secondo la giustizia italiana, questa signora di mezza età il 16 febbraio 1979 partecipò insieme con Battisti e con l’auora fidwmto Diego Giacomini all’omicidio di Lino Sabbaclin, macellaio di Santa Afaria di Sala (Venezia), assassinato per aver ucciso un rapinatore. Paola e Diego, autonomi duri, all’epoca erano soprannominati Bonnie e Clyde, a causa della passione per le rapine e per il tiro a segno con la pistola. Scrisse di lei Pietro Forno, giudice istruttore nel processo ai Pac: «la Filippi si comportava da capo e dimostrava una freddezza che non aveva nemmeno il Battisti». Tomàs, il figlio, vittima di anni che non ha mai vissuto, non crede ai magistrati: «Mia madre mi ha assicurato che le accuse sono false. Ora non intende più parlarne, ha cancellato tutto. Vive nel futuro». Difficile spiegarlo ai parenti delle vittime. «La sua pena è l’esilio» ribatte Tomàs «per non essere arrestata non ha potuto partecipare neppure ai fimerali dei genitori». Era un bimbo di 7 anni quando ha chiesto per la prima volta alla madre perché non tornasse mai in Italia: «Da allora ne abbiamo riparlato solo quando sono diventato maggiorenne, poi basta». li ragazzo conosce le vicende dei Proletari armati per il comunismo attraverso i giornali francesi e dice con tono fermo: «Sono contento che il Brasile non abbia concesso l’estradizione per Battisti. Contro di lui ci sono solo le dichiarazioni dei pentiti». Probabilmente ripete la versione della madre, che al figlio non ha mai confidato il suo pentimento. Dice il ragazzo: «Quella è la sua storia, non la mia» la stessa di altri latitanti, fuggiti a Parigi quando il presidente Frangois Mitterrand concesse «asilo» ai protagonisti degli anni di piombo in cambio della buona condotta. Un patto che ha resistito fino al 2002, quando è stata concessa l’estradizione dell’ex br Paolo Persichetti. In altri 15 casi è stata rifiutata: quattro richieste riguardavano latitanti condannati all’ergastolo. Nel 2008 Nlarina Petrella si è salvata dall’espulsione per «ragioni umanitarie», minacciando il suicidio dopo aver perso in prigione quasi 20 chili. Nello stanzino al secondo piano del ministero della Giustizia ftmcese, in place Vend6me, Teresa Angela Camelio, magistrato di collegamento italiano ed esperta di terrorismo (in Toscana ha combattuto nuove Brigate rosse e anarcoinsurrezionalisti), mette a punto le richieste. La sua scrivania, dopo il trasferimento del predecessore Stefano Mogini, era rimasta vuota per quasi due anni: ora ha ripreso a fimionare a pieno ritmo. Le posizioni dei latitanti italiani sono di nuovo sotto esame. Non è facile riportarli in patria: nonostante l’età, la dottrina Mitterrand ostacola le richieste dei magistrati italiani. Come quella, recente, di fermo per Berguffin da pane della procura di Milano. D’altra parte in Francia il mandato di arresto europeo è applicabile solo per i reati successivi all’agosto 1993, ponendo di fatto gli anni di piombo sotto l’egída dell’istituto dell’estradízione e quindi del potere politico anziché di quello giudiziario. E quando l’Italia bussa, la Rive gauche ribolle. Nel caso Petrella si è mobilitata anche Valeria Bruni Tedeschi, cognata del presidente Nicolas Sarkozy. Ecco perché molti latitanti restano a invecchiare in Francia e, magari, ad attendere la prescrizione della pena. «Non sono più ricercata dal marzo scorso» esulta con Panorama, per esempio, l’ex brigatista torinese Olga Girotto. Non cogi i suoi dieci ex compagni per cui è in corso la richiesta d’estradizione. Cinque di loro vivono a Parigi, tre nell’hinterland, gli altri due a Montpellier e Duisans. Hanno tutti cambiato vita. Giovanni Alimonti, 53 anni, fa l’insegnante di italiano; Massimo Carfora, 52, è titolare di una società che organizza fiere e saiom; Giorgio Pietrosterini, 65, condannato per l’omicidio del conunissario Luigi Calabresi, fa l’editore; Vincenzo Spanò, cinquantaduenne reggino, ha un ristorante. In cima alla lista dei ricercati ci sono Roberta Cappelli, 53 anni, commerciante, e l’ex marito Enrico Villimburgo, 54, tecnico informatico, condannati all’ergastolo ed ex componenti della sanguinaria colonna romana delle Br (rapimento e uccisione di Aldo Moro, omicidi Bachelet, Minervini, (Galvaligi ... ). Villimburgo risulta domiciliato in una viuzza a pochi passi dalla chiesa di Notre Dame de Lorette. Sulle cassette della posta il nome non c’è e nel cortile del caseggiato nessuno lo ricorda. Nella vicina pizzeria Cantina clandestina non l’hanno mai visto, Il proprietario, un piccolo editore, informa che, in compenso, ha conosciuto il fondatore delle Br Renato Curcio. Cappelli vive invece a est, in rue Reulley, a pochi passi dalla Camera del lavoro. Il palazzo dove risiede sembra una prigione: è un parallelepipedo di cemento alto 11 piani con 330 finestre tutte uguali sulla facciata. Lei non si nasconde: il nome è sull’elenco telefonico da quando si è rifugiata oltralpe, nel 1993. Se la Francia concedesse l’estradizione, tornerebbe in Italia a scontare la pena o scapperebbe all’estero come Battisti? Cappelli, con voce stanca, risponde: «Mi scusi, signore, è talmente evidente: se sono rimasta qua con tutte queste bufere, che cosa vuol dire secondo lei? ». Battisti nega di aver commesso quello di cui lo accusano, l’ex br sceglie un’altra linea: «Io mi assumo tutta la responsabilità di quella storia». Quindi aggiunge con leggerezza un «voilà», quasi a significare: ecco, mi sono tolta un peso. Nella lista dei dieci per cui l’Italia ha chiesto l’estradizione c’è anche chi la prende con allegria: «Sono temutissimo: non si sa mai che cosa potrei preparare tra un piatto di pasta e un riramisù» scherza Maurizio Di Ntarzio, romano, ex terrorista e oggi ristoratore. rh niaggio, dopo la nascita del figlio, ha aperto una piccola brasserie poco distante da piazza della Bastiglia: «Qui vengono a mangiare pure diversi amici poliziotti» sostiene. Il suo locale è un punto di riferimento per alcuni latitanti. Di Marzio è fuggito in Francia nel 1994, prima di essere condannato definitivamente a 18 anni per due ferimenti, una rapina e un tentato sequestro. La sua richiesta di estradizione è pronta da 14 anni, ma la Francia non l’ha mai firmata. Lui si sente un perseguitato: «In Italia ho trascorso sei anni in prigione, me ne restano da scontare altri cinque: perché continuo a essere inserito nella lista dei ricercati? Non ho mai ucciso, al contrario di pentiti come Savasta, Segio, Peci, che mettevano le tacche sulle pistole». Di Marzio dice di non avere fiducia nella giustizia italiana: «Nei processi sono emerse un sacco di fandonie e se Cesare dice che è innocente gli credo». Parla di Battisti, di cui ricorda le serare passate insieme con Cappelli e Villimburgo a discutere di estradizione, ma anche di politica, «magari prima delle elezioni italiane». Cita Yari Marx, però giura di essere cambiato: «Qui lo siamo tutti. Io sono persino diventato un padrone» prova a sdrammatizzare. Al figlio non sa cosa racconterà della sua storia e si capisce che non ha ancora metabolizzato il passato: «Ho fatto un mare di sciocchezze e non ripeterei l’esperienza della lotta armata, ma prima di giudicare bisogna considerare il contesto, il clima degli anni 70». Vuole dire qualcosa ai parenti delle vittime? «Che li capisco, ma mi chiedo perché non intervistino mai quelli di chi è morto nelle stragi di stato». Sembra di riascoltare un vecchio 45 giri: l’orologio di Parigi è fermo al 1993. Chissà se il ministero della Giustizia italiano riuscirà a sbloccarlo. Sarkozy e il presidente brasiliano Lula permettendo. DO UT DES, REGOLA D’ORO DELLA POLITICA- I primi nove mesi del governo Bertusconi offrono un dato chiaro: finché la maggioranza è andata avanti per la sua strada, privilegiando il decisionismo alla filosofia dei dialogo con l’opposizione, il governo ha prodotto motto (ha risotto il problema dei rifiuti a Napoli, quello dett’Alitalia, La Finanziaria triennale, e ha aperto la strada, al di là di quello che pensa la Lega, al federatismo fiscale). Da quando, invece, il centrodestra è tomato a dissertare al suo intemo sul dialogo con ropposizione (l’unico che se ne è tirato fuori è stato il Cavaliere) l’azione del governo si è appannata. Se n’è parlato molto, ma non si è concluso niente. Anzi, la coatizione ha cominciato a mostrare delle crepe e una miriade di protagonismi velleitari. Il motivo è semplice: la leadership di Walter Veltroni è stata nei fatti delelegittimata dallo stato, maggiore, del Pd. Un personaggio pacioso ed equilibrato come l’ex popolare Pierluigi Castagnetti non si meraviglierebbe addirittura se il cambio alla guida dei democratici avvenisse prima dette europee. In assenza di un interlocutore autorevole diventa molto difficile aprire un confronto produttivo. 0 meglio, rischia di trasformarsi, almeno sul piano dei fatti, in un dialogo unilaterale con con concessioni unilaterali. L’astensione sul federalismo fiscale al Senato è stata per il Pd una scelta merafferrte titbca, tanto più che Pasterisione a Palazzo Madama è considerata voto contrario. Sulla giustizia l’intesa con Veltroni è possibile a patto che Berlusconi accetti di approvare una riforma meno ambiziosa. Non parliamo poi dell’accordo sulla legge elettorate, se si farà: lo sbarramento al 4 per cento disegna una geografia politica su tre poli (centrodestra, centrosinistra, centro) salvando il Pd dall’esplosione e preparandogli un possibile alleato per il futuro, Pier Ferdinando Casini. Qualcuno nel centrodestra inimagina di usare gli ex dc in funzione anti Lega, ma i centristi, se torneranno a essere determinanti, chiederanno il superamento della leadership di Berlusconi (cose viste e riviste). Se in questo quadro il Cavaliere non riuscirà a portare a casa almeno riforma dei regolamenti parlamentari e l’intesa sulla Rai (la riforma detta par condicio non è stata inserita neppure nella trattativa), avrà concesso motto in cambio di niente. Si sarà fatto carico dei problemi di un Veltroni debole, che magari tra qualche mese non sarà più alta testa del Pd. Un’impresa nobile, ma in politica la bussola da seguire è il do ut des. Se si smarrisce la strada alla fine si rischia di pagare il conto. Da soli. Augusto Minzolini