Luca Riolfi, Panorama 5/2/2009, 5 febbraio 2009
NON ADORIAMO IL TOTEM DEI COSTI
Nella nostra società i dati hanno acquistato un potere intin iidente. Provate a dire che l’anno passato la vostra auto ha fatto parecchi chilometri: nessuno sarà impressionato. Ma provate a dire che ha fatto 34.618,2 chilometri: vi guarderanno come un matto, immaginandovi alla mezzanotte del 3 1 dicembre a registrare quel che segnava il vostro contachilometri. Lo stesso accade nel discorso pubblico. Se un politico dice che i consumi sono diminuiti, non fa alcuna impressione. Ah se cita un’indagine ufficiale da cui risulta che sono dinúnuiti del 3,7 per cento, acquista subito un’aura di serietà e autorevolezza. Infatti tutti noi, quando sentiarno delle cifre, tanto più se provengono da fonti ufficiali come l’Istat, la Banca d’Italia, il ministero defl’Econonìia, siamo naturalmente portati a crederle vere, a prenderle come farti incontrovertibíli, a considerarle oggettive e definitivamente «date»: e infatti le chiamiamo dati. Questo atteggiamento non è di per sé sbagliato’ perché spesso le cifre sono prodotte con metodi accurati e hanno margini di errore piccoli. Il numero di auto vendute (legalmente), per esempio, è un dato tempestivo e sicuro perché raccolto su base anmúnistrativa. Ci sono dati, tuttavia, che non meritano deferenza perché, pur essendo somministrati come oro colato, sono in realtà quanto di più fragile si possa immaginare in materia di dati statistici.
Nell’ampia schiera dei dati di cui ingenuamente ci si fida vorrei citarne tre: il tasso di crescita del pil, l’inflazione e il rapporro deficit/pil, ossia quel numeretto che deve stare sotto il 3 per cento (se no l’Europa ci sgrida). Questi tre dati vengono attesi con ansia, perché sono il termometro dell’econonúa, ma il loro valore è molto relativo per almeno tre ragioni: a) le informazioni su cui si basano sono inevitabilmente incomplete, frammentarie; b) le procedure di raccolta ed elaborazione prevedono una miriade di decisioni relativamente arbitrarie, nonché frequenti cambiamenti delle convenzioni statistico contabili; c) il margine di errore delle stime è sconosciuto.
Se ci dicono che l’inflazione è stata del 2,2 per cento, o che il pil è cresciuto dello 0,4, o che il deficit è all’1,9, noi ci crediamo, ma non dovremmo farlo. Nel caso dell’infiazione perché, come hanno dimostrato gli studi del professor Luigi Campiglio, le procedure dell’Istar la sottostimano sistematicamente. Nel caso del pil e del deficit perché il primo dato pubblicato, e spesso anche quello a uno o due anni di distanza, può essere lontanissimo non solo dalla realtà (che resta sconosciuta) ma anche dal dato definitivo, che di norma esce quattro anni dopo il fatto.
La riprova? Basta analizzare la traiettoria che i dati percorrono dalla loro uscita (il momento in cui l’interesse del pubblico è massimo) e il momento in cui diventano definitivi, talora diversi anni dopo. La storia più eclatante è probabilmente quella del deficit lasciato dal centrosinistra nel 2001, valutato inizialmente l’1,4 per cento e alla fine il 3,1 (grafico).
Ma anche il pil non scherza. Il primo dato sul 2003 (comunicato a marzo 2004) indicava una crescita positiva (+0,3 per cento), il dato rivisto finale dà una lievissima diminuzione. Per il pil 2005 succede il contrario: il primo dato (marzo 2006) dà una lievissima din iinuzione, il dato attuale (non ancora definitivo) dà una crescita dello 0,6. Quanto al 2004 le cifre oscillano, e la stima più alta è circa il 50 per cento maggiore di quella più bassa.
Morale: se proprio vogliamo credere a questo genere di cifre facciarnolo, ma non prima di averle tradotte. Chi ci annuncia che il pil è aumentato dello 0,5 per cento in realtà vuole dirci: «A noi, adesso, risulta che il pil sia cresciuto dello 0,5, ma fra qualche anno potremmo anche dirvi che la crescita è stata doppia, o è stata la metà, e persino che il pil è diminuito».