Marco Fortis, Il Messaggero 30/1/2009, 30 gennaio 2009
STATI UNITI E CINA SULL’ORLO DELLA ROTTURA
Per capire le cause dell’odierna crisi economica mondiale non è sufficiente risalire al problema dei mutui sub-prime, al cumulo dei debiti delle famiglie americane, di mezzo Nord Europa e della Spagna, al crack delle banche, ai titoli ”tossici” e al credit crunch. Manca, infatti, un tassello importante. necessario ricordare anche che l’effimero e pericolante impero del debito americano non si sarebbe potuto costruire senza l’apporto fondamentale del risparmio asiatico, principalmente della Cina.
Quest’ultima negli ultimi quindici anni ha conosciuto un’espansione formidabile della propria economia, grazie soprattutto agli investimenti diretti esteri che hanno trasformato il grande Paese asiatico nella ”fabbrica del mondo”. Gli americani, in particolare, hanno delocalizzato gran parte delle loro attività produttive in Cina. Avvantaggiandosi del più basso costo del lavoro messo loro a disposizione dal Governo cinese, le imprese americane, ma anche giapponesi e di vari Paesi del Nord Europa, hanno potuto beneficiare di profitti straordinari che hanno sospinto i valori di Borsa e scatenato una autentica corsa alle stock option.
I prodotti cinesi a basso costo hanno contribuito, in una prima fase, a mantenere bassa l’inflazione nei Paesi avanzati, il che ha permesso a questi ultimi ed in particolare agli Stati Uniti di perseguire una politica di tassi di interesse estremamente bassi, che a loro volta hanno favorito l’erogazione dei mutui e la ”bolla” immobiliare. Il crescente surplus commerciale di Pechino, anziché tradursi, come vorrebbe la logica del mercato, in una progressiva rivalutazione dello yuan che però avrebbe inceppato questo meccanismo di convenienze reciproche, è stato ”sterilizzato” dalle autorità monetarie cinesi, le cui riserve valutarie si sono impennate sino a raggiungere alla fine del 2008 la cifra record di circa 2.000 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali, 1.300 miliardi secondo un Rapporto del Congresso Usa del 20 novembre scorso, è stata però reinvestita in America. Dove? Per più della metà in titoli del debito federale americano e per la parte rimanente in obbligazioni di Agenzie e imprese para-governative, tra le quali la parte del leone è stata giocata proprio da Fannie Mae e Freddie Mac, come avevamo già scritto sul ”Messaggero” il 1° novembre scorso. In altri, termini, la Cina è stato uno dei principali finanziatori della ”bolla” immobiliare americana.
Le nostre analisi, su cui oggi tanti colpevolmente convergono in modo tardivo, trovano conferma in un clamoroso articolo uscito ieri sul ”Wall Street Journal” (Wsj), secondo il quale, tra l’altro, gli investimenti cinesi nel debito pubblico Usa e nelle banche americane starebbero creando non pochi imbarazzi a Pechino. Infatti, crescenti critiche sarebbero rivolte in Cina al fondo sovrano cinese, China investment corporation (Cic), per le sue scelte, come quella di investire 5,6 miliardi di dollari in azioni della Morgan Stanley, che da allora ha perso il 60% del suo valore. La Cic ha registrato perdite rilevanti anche su un altro investimento, quello di 3 miliardi di dollari nel fondo Blackstone Group Lp. La Cic è composta da uno staff in gran parte educato in Occidente e, secondo il Wsj, è vista in alcuni ambienti cinesi come un simbolo degli intrecci finanziari con gli Usa, ritenuti poco trasparenti ed ora al centro di crescenti malumori.
Già nell’ottobre scorso un paper diffuso in Cina su Internet ha preso di mira la Cic ed anche Zhou Xiaochuan, il governatore della Banca centrale, per i loro troppo stretti rapporti con l’ex segretario al Tesoro americano Henry Paulson. In un passaggio del documento si accusava addirittura Zhou di essere ”colluso” con Paulson per i troppi acquisti di obbligazioni del debito federale Usa. Come è noto, la Cina è ormai il principale detentore estero di tali titoli, per un ammontare di 585 miliardi di dollari a settembre 2008.
Ma all’esposizione cinese sui titoli del debito pubblico di Washington si aggiunge quella altrettanto enorme che Pechino ha nei riguardi dei due ”mostri” che in America hanno alimentato la ”bolla” immobiliare: i due giganti dai piedi d’argilla Fannie Mae e Freddie Mac. Secondo il ”Wall Street Journal”, che cita fonti accreditate, ”i massimi leader cinesi, che non erano stati informati in dettaglio di come le riserve della Cina erano state investite, hanno appreso per la prima volta in alcuni rapporti pubblicati che l’esposizione del Paese sui debiti delle due società da sole totalizzavano circa 400 miliardi di dollari”. Da quel momento, sempre secondo il Wsj, nel corso dell’aggravarsi della crisi finanziaria la Cina ha preteso ed ha ricevuto regolarmente dal Tesoro Usa e dallo stesso Paulson informative regolari sull’andamento del mercato statunitense delle obbligazioni federali ed in particolare sul destino dei due colossi dei mutui.
Una situazione che indica chiaramente il grado patologico di complementarietà delle relazioni finanziarie ed economiche raggiunto da Stati Uniti e Cina, ma anche, adesso che la crisi mondiale è scoppiata in tutta la sua virulenza, la dimensione delle formidabili tensioni striscianti tra i due Paesi.
Nei giorni scorsi il nuovo responsabile del Tesoro americano, Timothy Geithner, ha duramente criticato la Cina, accusata di ”manipolare” il cambio dello yuan. L’altroieri, al Forum di Davos, il premier cinese Wen Jiabao è stato durissimo nei confronti delle degenerazioni finanziarie del capitalismo americano ed ha attaccato ”la cieca ricerca del profitto”. Siamo arrivati alla fine della ”Chimerica”, come alcuni avevano definito lo stato di equilibrio reciproco tra China ed America fondendone i nomi?
La crisi mondiale è gravissima. auspicabile che Stati Uniti e Cina non si mettano a ”litigare”, dopo aver sospinto per anni le loro economie in una folle corsa fin sull’orlo del baratro, con una crescita ”drogata” da troppo debito americano e da compiacenti svalutazioni competitive concesse allo yuan e alle merci cinesi, esportate in dumping e non ”in regola” con gli standard occidentali. Dalle due maggiori economie del pianeta il mondo si attende oggi un atteggiamento responsabile per creare davvero quel nuovo ordine mondiale, fatto di nuove regole e di comportamenti più trasparenti, che consenta all’economia reale di tornare al centro dello sviluppo. Perché, come hanno scritto Ciampi, Tremonti e Prodi su queste colonne negli ultimi mesi, le vecchie regole non bastano più. E perché, come ha dichiarato a Davos lo stesso Wen Jiabao, ”bisogna ritrovare un equilibrio tra manifattura e finanza, tra chi consuma e chi risparmia. Solo così la primavera è dietro l’angolo e l’inverno passerà”.