Manuela Grassi e Marco Giovannini, Panorama, 5 febbraio 2009, 5 febbraio 2009
MANUELA GRASSI PER PANORAMA 5 FEBBRAIO 2009
Meryl o Philip? Un dubbio da Oscar. Faccia a faccia Lei è Meryl Streep e alle nomination per la statuetta ha fatto l’abitudine: ne ha collezionate 15, vincendo solo due volte (l’ultima 25 anni fa), ma conservando il buon umore: «Ho perduto più Academy award io di qualsiasi altro attore» dice ridendo. Lui è Philip Seymour Hoffman, soprannome «il Camaleonte» per la facilità con cui passa da un ruolo all’altro, e con già un premio come miglior attore protagonista intascato nel 2006, grazie a un’eccezionale interpretazione di Truman Capote. Ora sono entrambi vicinissimi alla vittoria grazie al film di cui sono coprotagonisti. Si parla di religione, Bronx e pedofilia. Vincerà la suora rigida e conservatrice o il prete simpatico e moderno, ma così ambiguo?
Meryl Streep
Meryl Streep frantuma ogni stereotipo hollywoodiano. A quasi sessant’anni (22 giugno) marcia come una locomotiva in un mondo che le attrici le seppellisce a 40. Non ama il glamour, ha lo stesso marito da trent’anni (lo scultore Don Gummer), ha allevato quattro figli accumulando 15 nomination all’Oscar, il record più alto per un attore. Due li ha vinti molti anni fa per Kramer contro Kramer e La scelta di Sophie. Il terzo sembrerebbe già in tasca, grazie all’arcigna suor Aloysius Beauvier, protagonista di Il dubbio. Intanto si è aggiudicata, per lo stesso ruolo, lo Screen actors guild award.
«Meryl è il genio della nostra generazione» ha detto Diane Keaton. Dopo averla vista cantare e sgambettare in Mamma mia!, superare se stessa impugnando il crocifisso contro Philip Seymour Hoffman, perfetta nei panni della grande chef Julia Child (riccioli castani e grembiulone tra rami e mestoli) in Julie & Julia di Nora Ephron, uscita americana il prossimo 7 agosto, genio è l’unica definizione possibile.
Streep gongola, ma fa uso di understatement. «Quest’anno sono stata fortunata. Esiste la serendipità. Può darsi che l’anno prossimo non succeda niente». Voce melodiosa (che sa piegare a ogni accento), pelle bianchissima, occhi blu circondati da piccole rughe, naso elegante (famoso il setto deviato e mai ritoccato), vista da vicino Streep è sempre bellissima («Come Catherine Deneuve, tra la faccia e il sedere ho scelto di salvare la prima»).
Viene subito in mente la cascata di capelli color grano di Angela nel Cacciatore di Michael Cimino (prima nomination), dove tra gli interpreti c’era anche John Cazale, il suo compagno, che sarebbe morto di cancro subito dopo. Ma anche ruoli divertenti come quello della moglie lesbica di Woody Allen in Manhattan, o di Miranda Priestley in Il diavolo veste Prada, dove Meryl, che non è una fashion victim, riesce a essere malvestita (eppure divina) perfino nei panni di direttore di Vogue.
Il dubbio di John Patrick Shanley è ambientato nel 1964, nella parrocchia cattolica di St. Nicholas in the Bronx. Suor Aloysius, rigida conservatrice, sospetta il simpatico e aperto padre Flynn di molestare un allievo di colore. Non sapremo mai la verità. Ma la passione della suora lascia un segno sconvolgente.
Esiste un metodo Streep? «Mi basta entrare in una stanza e difendere le ragioni che lo sceneggiatore mi ha dato, con l’esperienza di tutta la mia vita dietro di me». Ha pensato molto al passato del suo personaggio. «Non solo a ciò di cui vuole parlare, che ha avuto un marito, che è morto in guerra, ma anche a ciò che non vuole dire: quello che non direbbe neppure in confessionale. Ho creato un passato per lei nella mia testa, qualcosa che mi facesse capire perché sente questo crimine in maniera così acuta, perché lo annusa prima di qualsiasi altro. Pane per un attore».
Il suo ultimo Oscar l’ha preso 25 anni fa: «Ho perduto più Oscar io di qualsiasi altro attore» ride. «Quindi sono abituata. Le nomination mi fanno sentire favolosa. Devo resistere alla pressione della stampa il giorno dopo, quando usa quella metafora sportiva che non mi piace neanche un po’: da favolosa che eri diventi la perdente».
MARCO GIOVANNINI
Philip Seymour Hoffman
Quando decise di fare l’attore ebbe il problema del nome: c’era già un Philip Hoffman e sindacato e mutua non permettono omonimie. Quindi aggiunse Seymour. Il suo psicoanalista gli spiegò che doveva essere stata una scelta dell’inconscio e quindi una spia, il desiderio di essere più di una persona. Sta di fatto che Philip Seymour Hoffman oggi a 41 anni è definito «il Camaleonte».
Dice il suo amico John Patrick Shanley, regista di Il dubbio: «Non è facile conoscerlo. La prima volta che l’ho incontrato, a una festa, era vestito con tre cappotti e un cappello. Gli feci notare che faceva caldo e avrebbe fatto bene a spogliarsi. Mi disse che in mezz’ora si sarebbe tolto qualcosa».
Non vive mai una sola vita alla volta. Mentre faceva la promozione per Il dubbio girava con gli auricolari per familiarizzarsi con la musica del suo prossimo film, The boat that rocked, in cui interpreta un dj, e in tasca aveva una copia stropicciata e sottolineata di Otello di William Shakespeare, prossimo impegno teatrale.
Il suo personaggio in Il dubbio è padre Brendan Flynn, un prete moderno e innovatore, accusato di pedofilia. Una interpretazione così ambigua che, dice, tutti gli fanno la stessa domanda: il personaggio è innocente o colpevole?
Secondo il regista Mike Nichols, che lo definisce «l’altro Hoffman» (cioè non Dustin), Philip pur avendo un Oscar nel suo salotto buono (per il film Truman Capote - A sangue freddo) non sa cosa sia l’ego: gli spettatori della sua compagnia teatrale, LaByrinth Group, spesso lo trovano che strappa i biglietti all’ingresso del teatro o li accompagna ai posti; il suo ufficio di rappresentanza è ricavato da un appartamentino del Greenwich Village, dove una volta abitava, oggi troppo piccolo: ha appena avuto il terzo figlio.
A proposito: su internet la curiosità più comune è sapere se sia gay. Per niente turbato lui spiega di avere da sempre una compagna (la costumista Mimi O’Donnell, madre dei suoi tre figli Cooper Alexander, Tallulah, Willa). L’equivoco, pensa, sta in due personaggi che ha interpretato: lo scrittore omosessuale Truman Capote e Rusty, la drag queen di Flawless- senza difetti. E, forse, nel fatto che nel discorso di ringraziamento dopo l’Oscar, a parte i suoi insegnanti di recitazione, ha citato a lungo la madre Marylin, una femminista della prima ora («Sii orgogliosa di me, mamma, perché io sono orgoglioso di te»).
Fra i suoi colleghi ama Daniel Day-Lewis, Paul Newman, Meryl Streep e Christopher Walken. Il suo film di culto è Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese. Ama lo sport e se non avesse avuto un incidente al college forse sarebbe diventato un professionista di football. Oggi si limita a giocare a tennis, per tenersi in forma.
Interpretare un prete lo ha fatto ragionare sui comandamenti: fra i suoi peccati mette sigarette e birre, ma non le parolacce.
Se non avesse fatto l’attore (folgorato dalla commedia Tutti i miei figli di Arthur Miller) forse sarebbe diventato un insegnante. Mai e poi mai avrebbe potuto fare il critico. Non ama Los Angeles perché ci sono troppe macchine e lui odia il suono degli antifurto.
Non ha paura della morte, ma dice che il giorno che si presenterà in paradiso, se esiste, vorrebbe sentirsi dire una battuta da film: «Ok, ricominciamo da capo».