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 2009  febbraio 05 Giovedì calendario

ANDREA MERCENARO PER PANORAMA 5 FEBBARIO 2009

« la vecchia sinistra che si oppone alle riforme. Il Pd è nato per voltare pagina». Il giuslavorista minacciato dalle Br racconta le enormi difficoltà del riformismo. E il suo percorso da eretico in una sinistra che «ci ha messo 15 anni a capire».
Ci dev’essere un motivo. Sarà un sortilegio, una macumba, qualcosa che sfugge al senso comune, ma ci dev’essere un motivo se un uomo come Pietro Ichino, vale a dire uno dei giuslavoristi più stimati del Paese, prende regolarmente posizioni politiche che il corpaccione della sinistra considera di destra, anche se lui si colloca a sinistra. E lì sta, rocciosamente. Deve esistere un accidente di spiegazione se il senatore Ichino, minacciato a Milano dai brigatisti («Fai schifo, assassino, massacratore di operai»), raccoglie, certo, tutta la possibile solidarietà umana dal Partito democratico, ma non raccoglie altrettanta solidarietà politica quando valuta positivamente l’accordo per la riforma dei contratti che la Cgil, «la sua Cgil», si è appena rifiutata di firmare. Eppure lui sta sempre lì, sempre a sinistra, ancor più rocciosamente.
Scelto a caso da uno degli innumerevoli blog e forum dove la discussione tra compagni si accalora, scrive Sergio Di Rosa, militante di base del Pd: «Con stupore noto come sempre più spesso il frasario reazionario e ultraconservatore della destra più antisociale venga utilizzato da compagni che militano nel Pd, come nel caso di Pietro Ichino, molto impegnato nella lotta all’eliminazione dei diritti dei lavoratori e per la tutela dei padroni».
Cosa risponde a Di Rosa, professore?
Dopo la mia prima esperienza parlamentare, per un quarto di secolo ho avuto a che fare prevalentemente con una sinistra in cui prevaleva questa cultura. stato molto difficile perforare quel muro, però mi sembra di esserci riuscito. La cosa curiosa è che l’arma più efficace non sono stati i miei buoni argomenti, basati sulle scienze sociali e sulla comparazione internazionale.
Bensì?
La mia testimonianza personale; morale, se vogliamo usare una parola grossa. Quando a sinistra hanno constatato che il mio scopo non era di arricchirmi, né di conquistare una posizione di potere, che anzi rischiavo la pelle per sostenere le mie idee, questo li ha indotti a prendermi un po’ più sul serio. Così ho potuto avere scambi seri anche su Liberazione e Il Manifesto. Il cordone sanitario si è rotto e molti hanno incominciato a ipotizzare che potessi avere ragione.
Ma i suoi punti di vista su politiche del lavoro, flessibilità, precarietà, pensioni e welfare fanno a pugni con il messaggio uscito in questi anni dalla Cgil. Cosa c’entrano gli uni con l’altra? La sinistra non sopporta le sue idee, professore.
La vecchia sinistra, forse. Ma il Pd è nato per voltare pagina e la sta voltando davvero. Se lei legge il manifesto elettorale del Pd per la politica del lavoro del marzo scorso, o il discorso di Walter Veltroni del 19 dicembre alla direzione del Pd, ci trova molto di più le mie idee che quelle della vecchia sinistra.
Nel manifesto e nel discorso forse, nella pratica meno.
Guardi che sono il segretario del Pd e il ministro ombra del lavoro Enrico Letta, non Maurizio Sacconi, a far proprie le mie proposte sulla transizione alla «flexicurity», già tradotte in un disegno di legge. Nel programma del governo di centrodestra non trovo una virgola di tutto questo; e Giulio Tremonti fa sapere che in questa legislatura «lo Statuto dei lavoratori non si tocca».
Ma nel Pd non si muove foglia che la Cgil non voglia....
Non è così. Sul terreno del lavoro pubblico il Pd ha fatto integralmente proprie le mie proposte sulla trasparenza totale, valutazione, misurazione e «benchmarking» e le ha difese fino in fondo, con successo, nel confronto in Senato con il ministro Renato Brunetta, nonostante il fuoco di sbarramento della Cgil.
Liceo Manzoni a Milano, famiglia borghese, cattolica, generosa, cresciuto alla sensibilità per i diritti dei più deboli... Alla fine degli anni Sessanta stare a sinistra, nella sua Milano, sembrava naturale come mangiare il panettone.
Mio padre era stato iscritto al Partito d’azione, poi sempre molto vicino al Partito socialista. Entrambi i genitori appassionati alla vicenda del Concilio vaticano II, nella Milano del cardinale Giovanni Battista Montini, di padre Davide Maria Turoldo, negli anni d’oro della corsia de’ Servi. E fin dagli anni 50 abbiamo avuto un rapporto molto stretto con don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi. Ero a sinistra già da bambino, prima ancora che venisse il momento di fare qualsiasi scelta di partito.
Poi, con il ”68, subito il sindacato.
Avevo fatto il ”68 alla Statale. Ma nell’autunno di quell’anno fu proprio il movimento studentesco a espellermi, per una mia mozione in cui sostenevo la necessità di un collegamento più stretto fra università e tessuto produttivo.
Vede? Fastidioso da subito.
Quei sedicenti libertari, in realtà, erano un po’ stalinisti. Andai alla camera del lavoro a chiedere se avessero bisogno di una mano.
E gliene diede due.
Mi spedirono ad aiutare un vecchio sindacalista in una zona molto periferica della provincia, a 30 mila lire al mese.
C’era la Cisl a Milano, e lei era cattolico. Però scelse i comunisti della Cgil.
Anche il parroco, amichevolmente, mi chiese il perché. Gli risposi che non doveva preoccuparsi, di lì a poco si sarebbe fatta l’unità sindacale.
Che invece ancora non si vede. Lei non disse tutta la verità al suo parroco, vero?
In realtà quella scelta era una diretta conseguenza della laicità della politica a cui ero stato educato fino a quel momento. In quel frangente era il mio modo di «rendere a Cesare quel che è di Cesare».
Per restituirglielo nel modo più completo: si iscrisse al Pci.
Nel 1967, per via di quello spirito laico respirato in famiglia, mi ero iscritto al Psiup. Ma l’entusiasmo si era spento quasi subito, con la presa di posizione tiepidissima di Tullio Vecchietti sui carri armati sovietici a Praga. E poi la vera grande casa della sinistra allora era il Pci. C’era spazio per tutti, non soltanto per i cattolici, come era ovvio, ma anche per i non marxisti, per i liberal, come già mi sentivo io allora.
Scusi, professor Ichino, ma uno contro i carri a Praga non è che potesse trovare tutti quegli aneliti di libertà proprio nel Pci. Semmai c’era il Psi.
Nel Psi a quell’epoca c’erano i Giugni e i Tobagi, ma anche molti, troppi affaristi.
Eccolo forse il punto, la asserita superiorità morale dei comunisti, la differenza antropologica, quella stessa malintesa diversità con cui i cattolici di sinistra andarono a nozze. Era il berlinguerismo. Quello stesso berlinguerismo per cui il militante Di Rosa e tanti altri fanno muro ancora oggi contro le sue idee.
Sul piano politico il Pci era un partito più serio e rigoroso, rispetto al Psi di allora. Comunque, lo confesso, allora la linea di Enrico Berlinguer mi convinceva, mi ci riconoscevo. Vedevo soprattutto il suo rigore morale, la sua pedagogia di massa efficace, il cammino serio di omologazione alle sinistre dell’Occidente e gli strappi progressivi rispetto all’Urss. Solo nei primi anni Ottanta cominciai a capire i limiti del berlinguerismo.
Quali limiti?
Al Pci mancò il coraggio di riconoscere apertamente il fallimento di alcuni suoi vecchi pilastri culturali. E anche di riconoscere che le cose migliori, per il sostegno dei più deboli, per la costruzione di pari opportunità vere, le avevano fatte i socialdemocratici del Nord Europa. Quelli scandinavi e i laburisti britannici più degli altri.
In Italia niente?
Su questo terreno gran parte delle scelte fatte insieme dalla Dc e dal Psi negli anni Settanta si era rivelata disastrosa. Il Psi di Bettino Craxi lo capì già all’inizio degli anni Ottanta e ne trasse le conseguenze. Il Pci tardò troppo.
Era il periodo della sua prima esperienza parlamentare.
Sì, l’ottava legislatura, dal 1979 al 1983.
Poi non venne rieletto. Lei è bravo, ci sarà stato un motivo per tenerla fuori.
Sostenevo cose troppo eccentriche, per essere rieletto. Superamento del monopolio statale del collocamento, necessità di abolire la scala mobile, di disciplinare i licenziamenti collettivi, di introdurre il part-time, il lavoro temporaneo tramite agenzia, lo «staff leasing». Cose, allora, ancora troppo indigeste a sinistra.
E considerate oggi relativamente pacifiche.
Ma ci sono voluti da 10 a 15 anni perché venissero digerite anche dal Pci, poi dal Pds e dalla Cgil. Una sinistra politica e sindacale troppo lenta a capire i segni dei tempi.
Non può essere stata anche questa lentezza ad aver favorito l’ideologizzazione del dibattito sulle politiche del lavoro? E non può essere stata anche questa lentezza ad aver favorito la degenerazione violenta e la mobilitazione maniacale dei terroristi di sinistra contro i giuslavoristi riformisti?
Molto alla lontana probabilmente sì: un nesso tra i due fenomeni si può ritenere che ci sia.
Un ritardo cronico che è rimasto. Che dura tuttora. Guardiamo alla sinistra e alla Cgil: lei ha continuato per tutti gli anni Ottanta e Novanta a predicare nel deserto dove aveva scelto di vivere. Le sue idee, se lo lasci ricordare, erano più apprezzate altrove.
Non ne sono così convinto. La linea di demarcazione tra riformisti e conservatori, in materia di lavoro, attraversa nello stesso modo tutti e due gli schieramenti, a destra come a sinistra. E nelle mie proposte c’è pure qualcosa di radicale, di un po’ giacobino, che spaventa anche a destra.
Per esempio?
Il mio disegno di legge per la transizione a un sistema di flexicurity: tutti i nuovi assunti, da oggi in poi, vengono assunti a tempo indeterminato, ma con un regime alla danese.
Che significa?
Massima flessibilità per l’impresa, ma anche indennità di disoccupazione fino a quattro anni e assistenza nel mercato del lavoro a livelli scandinavi. Il tutto gestito e finanziato solo dalle imprese, senza un euro di spesa per lo Stato.
Difficile, effettivamente. Resta il fatto, però, che la cultura profonda della sinistra tende sempre a considerare Ichino un mezzo traditore, o quantomeno uno scomodo intruso. Perché insistere a stare in chiesa a dispetto dei santi?
Se la distinzione fra destra e sinistra ha un senso, quel che mi muove è un’idea essenzialmente di sinistra. Costruire un sistema di pari opportunità per tutti, a cominciare dai più giovani. Sostituire questo al vero regime di apartheid che separa gli iperprotetti dai precari. La mia collocazione risponde a un motivo pratico: una riforma come quella a cui sto lavorando è più facile da realizzare se è la sinistra a prendere l’iniziativa.
Dopo le elezioni Silvio Berlusconi le offrì di fare il ministro nel suo governo. Fu lei stesso a scrivere sul «Corriere della sera» che il senso di quell’offerta era di fare di lei il garante di una politica del lavoro bipartisan, frutto del migliore riformismo offerto dai due schieramenti. Molti si chiedono ancora oggi perché lei non abbia accettato.
Se avessi accettato, avrei dovuto uscire dal governo poche settimane dopo, quando Berlusconi propose quel famigerato emendamento blocca processi che avrebbe paralizzato l’intera giustizia penale per risolvere un suo problema. Avrei dovuto approvare l’abrogazione dell’Ici sulle case dei ricchi invece della detassazione dei redditi da lavoro più bassi. Avrei dovuto sostenere «l’italianità» dell’Alitalia dopo aver sostenuto per l’intera campagna elettorale che era una sciocchezza.
 la fede religiosa che ispira la sua pietas nei confonti dei brigatisti che non perdono occasione per minacciarla di morte?
Non occorre essere credenti per riconoscere un essere umano anche nel peggior assassino. Con i miei aspiranti assassini vorrei poter parlare, confrontarmi, guardarli negli occhi. Non posso pensare che, dopo aver discusso, anche aspramente, delle loro tesi e delle mie, essi avrebbero ancora voglia di spararmi.
Resterà a sinistra, professore?
Resterò nel Pd, il partito che ho contribuito a fondare e che sto contribuendo a costruire.
Cercherà di far superare al suo partito la «diversità» berlingueriana?
Il Pd stesso è nato per questo
Ha bisogno di molti auguri.