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 2009  gennaio 30 Venerdì calendario

AMORI E VIZI D’ITALIA SECONDO PAOLO POLI


Fra il 1971 e il 1972 uscirono a puntate sul Corriere della Sera i Sillabari dello scrittore Goffredo Parise. Piccoli racconti, quadri minuti che - secondo l’ordine alfabetico, da Amore a Famiglia - descrivono situazioni di vita italiana, sentimenti, passioni e vizi di un popolo. Il successo fu tale che Parise replicò dal 1973 al 1981 con una seconda tranche di storie fulminanti (sempre in ordine alfabetico, da Felicità a Solitudine). Nel 1984, poi, i due libri dei Sillabari furono riuniti in un unico volume, ripubblicato da Adelphi nel 2004, il quale ad oggi conta varie edizioni.

A portare questi piccoli episodi sul palcoscenico ci ha pensato Paolo Poli, uno dei più celebri attori italiani, che in questi giorni interpreta e dirige uno spettacolo intitolato proprio I Sillabari in cartellone al Teatro Carcano di Milano fino a domenica. C’è da ridere, ovviamente, a vedere i cambiamenti d’abito e di tono di Poli che porta sul palco di volta in volta una zitella, un militare, una coppia annoiata, alcuni preti (tra cui uno con tendenze omosessuali), un borghese arricchito che ha cavalcato il boom economico e che a distanza di anni rincontra i vecchi amici. E poi ancora il portinaio di un grande palazzo che vive tra pettegolezzi e piccolezze quotidiani, le ballerine in un cabaret parigino.
I primi incontri con Pasolini

Il tutto completato da musiche d’epoca, francesi e italiane, (le quali, dice Poli, «anche all’ascoltatore meno preparato, all’uomo della strada, spiegano il momento storico. Ci sono quelle idiote del fascismo, ad esempio ”Ho un sassolino nella scarpa”, oppure ”Non si fa l’amore quando piove”) e dalle scene splendide di Emanuele Luzzati, mutuate dai capolavori dell’arte di quel periodo.

C’è anche un fondo di malinconia, nel riconoscersi in questi piccoli modellini dell’Italia che fu, i quali risultano attualissimi anche oggi. «Desumere da un racconto è difficile, perché è un’operazione contraria al teatro», racconta Poli nel suo camerino, prima di passare al trucco. «Mentre la narrativa si distende nell’analisi, il teatro si raggruma nella sintesi, per cui è un’operazione contronatura, se posso dirlo. Anche perché la natura vorrebbe che le parole morissero assieme alle persone, mentre la letteratura le conserva sotto spirito. Questo spettacolo l’ho pensato per affetto verso una persona che ho conosciuto negli anni Sessanta a Roma, cioè Goffredo Parise. Lui aveva la mia età, adesso avrebbe ottant’anni come me, ma è morto nell’86. Apprezzai la persona e poi sono stato colpito favorevolmente da questo librino che raccoglie tranche de vie o petite poèmes en prose, che ebbero anche l’elogio di Italo Calvino mentre stava scrivendo le Fiabe italiane».

L’attore e lo scrittore s’incontrarono nell’appartamento di Laura Betti, nel pieno della Dolce vita. «Io condividevo la casa con lei», racconta Poli, «e capitava spesso che venissero a pranzo Parise e Pier Paolo Pasolini. Li ho conosciuti entrambi a casa di Laura. Io a Pasolini non piacevo, mi considerava un finto intellettuale, per lui ero un po’ scadente. Non me l’ha mai detto, ma io capivo con l’occhio e l’orecchio. Lui parlava volentieri con Alberto Moravia, mentre io facevo già allora un teatro cabarettistico che a Pasolini non interessava. Il suo ideale era Ninetto Davoli, sa com’è... Parise era molto amico di Pasolini. L’ha portato a vedere i nudisti, sapeva di certi amori giovanili che Pasolini non pubblicò».

Se all’intellettuale antiborghese PPP il ”cabarettista” Poli non andava molto a genio, con Parise i rapporti erano diversi. Anche perché l’aria un po’ retrò che si respira nei Sillabari è la stessa che caratterizza molti lavori dell’attore.
Piccoli ritratti sempre attuali

Come spiega Poli, i Sillabari «sono stati scritti negli Anni di piombo, ma si rifanno alla metà del secolo, all’epoca della guerra, che fu una demarcazione terribile fra il prima e il dopo, una mutazione dell’etica e del costume, e Parise, giovinetto com’ero giovinetto io, ha registrato questo mutamento e lo rivive nel ricordo». Nonostante le distanze temporali, tuttavia, il risultato è comunque pungente. «L’uomo fin dai tempi di Seneca e di Platone è sempre uguale», commenta Poli, «Però mutano i vestiti e i modi di dire, di esprimersi. Ma se il pubblico non strappa il velluto delle poltrone vuol dire che in qualche misura si riconosce in ciò che vede. Così come nell’Ottocento la gente che andava a teatro alle opere di Verdi vedeva una fanciulla piangente e capiva che era l’Italia sotto l’Austria, anche se indossava abiti medievali. Nello spettacolo, quello che accade è sempre di attualità. Il nostro perbenismo, il buonismo».

Già, l’uomo rimane lo stesso anche se cambia il suo aspetto. Il mutamento dei vestiti e dei modi di dire lo ha raccontato bene un altro scrittore amatissimo da Poli, Alberto Arbasino. «Ho letto il suo ultimo libro, La vita bassa», spiega. «Arbasino ha questa magniloquenza... è straordinario perché mescola il linguaggio colto con quello banale e dialettale. Per esempio quando scrive in romanesco con cinque ”g”. Lui ha sempre descritto l’Italia, anche se credo che sia più grande quando scrive di una mostra di pittura o parla di libri piuttosto che quando narra in prima persona. Perché sembra che faccia sempre il verso alla letteratura, di cui è impregnato».

Rispetto al funambolico Arbasino, però, dalle cui opere sarebbe molto difficile trarre uno spettacolo «perché il pubblico vuole una storia», Poli preferisce la chiarezza di Parise. «Mi è piaciuta la semplicità della sua scrittura, tanto più che i Sillabari sono stati scritti in un’epoca in cui non avevamo ancora digerito del tutto il dannunzianesimo». La stessa semplicità che si ritrova in un altro amore letterario dell’attore, cioè Guido Gozzano, il quale «invece di andare a finire nel bric-à-brac del teatro come D’Annunzio, si è rifugiato in cucina fra le marmellatine della serva, la signorina Felicita. E riusciva a scrivere poesie con le parole più banali». Nella prosa di Poli si trovano anche influenze di altri scrittori: Flaiano, Palazzeschi, Savinio, Moravia.

«Flaiano si è dissanguato con i film che gli facevano fare», dice Poli, «i suoi libri li trovo stupendi, anche se Tempo di uccidere proprio non mi piace. Mi diverto di più a leggere le memorie di Vittorio Mussolini, per esempio quando dice che la guerra ci avrebbe resi tutti virili. Guardate me infatti come sono venuto... Moravia è meglio. Perché amava disperatamente la vita che non ha avuto per via della gamba malata. un peccato che non sia più molto letto, perché è vecchio ma non è antico».