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 2009  gennaio 29 Giovedì calendario

Il tempo passa: i tassi scendono e si avvicinano al fondo, oscuro e invalicabile, dello zero; le banche contabilizzano sempre nuove perdite (e altre ne temono, se peggiora la qualità del credito); le imprese anticipano la stretta, riducendo lo stock e contraendo i piani finanziari; i governi continuano a promettere aiuti

Il tempo passa: i tassi scendono e si avvicinano al fondo, oscuro e invalicabile, dello zero; le banche contabilizzano sempre nuove perdite (e altre ne temono, se peggiora la qualità del credito); le imprese anticipano la stretta, riducendo lo stock e contraendo i piani finanziari; i governi continuano a promettere aiuti. logico che gli investitori abbiano dichiarato lo sciopero generale. Nella tranquilla attesa di sempre nuovi aiuti pubblici, stanno alla finestra: domani porterà occasioni migliori. Qui la deflazione non c’entra, altre sono le cause. Anzitutto la certezza di avere il coltello dalla parte del manico: a investire c’è tempo, restiamo liquidi. Essi poi, più che aver paura dell’acqua tiepida, vedono sospese le vecchie regole del capitalismo e aspettano di conoscere quelle nuove prima di cominciare a giocare; per farlo, devono poter ritenere affidabili i contratti che, investendo, implicitamente sottoscrivono. Un effetto nefasto della crisi è la sospensione delle regole conosciute; perché torni la fiducia è necessario restaurarle, convincendo il mercato che i soldi pubblici non servono a nascondere la realtà, e che altri non ne arriveranno. La nebbia, tuttora fitta, deve alzarsi: solo così finirà lo sciopero. Qualche esempio? Girano numeri al lotto sui requisiti patrimoniali delle banche: non è il caso di alzarli di botto nel mezzo di una recessione. Quale sarà in futuro il modello di business delle banche? Forse saranno simili a placide utility, non più a fondi speculativi; anche la «festa» degli up front è finita. Che fine faranno i titoli tossici in pancia alle banche? Le risposte influenzeranno l’adeguatezza patrimoniale delle banche, la solvibilità e la fiducia nei loro confronti. Finché continua l’incertezza, gli investitori restano in sciopero, convinti che i prezzi non riflettano la realtà. Il commissario Ue Almunia e Laura Tyson, consulente di Obama, rilanciano l’idea di concentrare i titoli tossici in una bad bank, già alla base del piano dell’ex ministro Usa, Paulson. In un commento sul piano, abbandonato anche per le difficoltà di attuazione (Corriere, 25 settembre 2008), si sosteneva l’utilità della scissione, o conferimento, dei titoli tossici in una bad bank. La banca «madre» deve riconoscere alfine tutte le perdite che ha in pancia: così si disintossicherà e tornerà a funzionare. E se l’operazione la rendesse insolvente? Allora o subentra una banca solida, o gli azionisti la ricapitalizzano, o essa andrà in liquidazione, ferme le tutele di legge. Banche di rilievo sistemico potrebbero essere nazionalizzate. La bad bank dovrebbe limitarsi a gestire il pregresso, con un management indipendente, se possibile partendo da uno zoccolo di capitale sottoscritto dalla banca madre. Il pubblico – con i soci privati che volessero partecipare – ricapitalizza la bad bank e la tiene in vita. Quando i titoli tossici andranno a scadenza se ne vedrà il valore: qui si possono ipotizzare due strade. Con la prima i guadagni (o le perdite) spettano integralmente agli azionisti della bad bank, il che toglie ogni incertezza futura sulla banca «buona». Con la seconda, sopra (o sotto) un certo ritorno dell’investimento, ulteriori guadagni (perdite) vanno a beneficio (detrimento) della banca buona, disintossicata; tale metodo è sì più equo, ma lascia indefinito il futuro di questa. Le nostre banche sono restie ad accettare i soldi pubblici, per via dei costi e degli altri lacci che potrebbero essere appesi al regalo: temono Danaos et dona ferentes. Se però il costo del denaro pubblico fosse del 7,5% per titoli da Core Tier 1, in moderata crescita nel tempo per incentivare il rimborso, non parrebbe eccessivo; bisognerà, certo, capire bene le altre condizioni previste. La riluttanza delle banche a prendere atto delle perdite, pur comprensibile, va superata in ogni modo. Il decennio perduto del Giappone insegna: traccheggiare a lungo è troppo costoso. Il governo potrebbe chiarire di disporre di una somma limitata – 15/20 miliardi – e concederla ai primi che si faranno avanti con il «bollino» della Banca d’Italia. Si rischia, è vero, di essere smentiti se, già esaurite le disponibilità, una banca di rilievo sistemico chiedesse l’aiuto; il rischio di una figuraccia, tuttavia, deve indurre i responsabili a farsi avanti per tempo. Certo, c’è il rischio che le casse degli Stati – tutti indebitati, seppur meno di noi – non siano all’altezza delle richieste. Ma davvero siamo messi così male? Se sì, meglio afferrare il toro per le corna, contemplando misure ancor più drastiche da concordare con la Ue, fin qui troppo passiva; magari lo scambio debito- capitale di cui parlano da tempo Luigi Zingales e Martin Wolf. I problemi vanno risolti, non elusi; il tempo degli indugi sta scadendo.