Osvaldo Guerrieri, la Stampa, 28/01/2009, 28 gennaio 2009
"Che sfida il nuovo teatro"- Mario Martone? Diciamo che è nella fase del maratoneta. l’uomo-spola che da Torino si fionda ovunque in Italia, tra Nord e Sud, andate e ritorni, in un affannoso cambio di orizzonte e di clima che gli ha lasciato in dote una tosse cavernosa
"Che sfida il nuovo teatro"- Mario Martone? Diciamo che è nella fase del maratoneta. l’uomo-spola che da Torino si fionda ovunque in Italia, tra Nord e Sud, andate e ritorni, in un affannoso cambio di orizzonte e di clima che gli ha lasciato in dote una tosse cavernosa. Adesso, per esempio, è tornato dal Cilento. Ha compiuto alcuni sopralluoghi per Noi credevamo, il film sul Risorgimento in cantiere dal 2004 le cui riprese cominceranno a febbraio tra Torino, Saluzzo e le Alpi. Quattordici settimane di lavorazione per un film di tre ore che si completerà al Sud dopo Pasqua e la cui destinazione sarà doppia: il cinema e, nella versione più lunga, la tivù. Quale? Non si sa. Ma il maratoneta non è stanco. Non gli pesa neppure cambiare bruscamente percorso. Al pensiero del film accoppia quello per lo Stabile di Torino in un momento delicato e contraddittorio della sua esistenza. Martone punta il dito su quello che definisce «il paradosso dei paradossi»: il successo di pubblico con i 15 mila abbonati («un tetto storico»), il restauro del Carignano, la sala amata da Cavour, che riapre lunedì con Zio Vanja di Vacis («Io e Gabriele siamo della stessa generazione, stimo profondamente il suo lavoro da sempre. Riaprire con uno spettacolo realizzato dal suo nucleo storico vuole essere un omaggio alla forza che questo gruppo di artisti torinesi ha avuto nel nostro Paese») e la situazione finanziaria che sfiora l’incubo, con quel taglio comunale di 3 milioni 250 mila euro abbattutosi sul bilancio del 2008. E le prospettive sono fosche. Martone come tutti prevede un 2010 da quaresima, ma spera con gli altri nel 2011. E infatti pensa di fare finalmente il regista per il teatro che dirige soltanto in quell’anno. Inutile chiedergli che progetto abbia in mente. Per ora non sa che pesci pigliare. Una cosa però gli è chiara e gli dà forza. il tentativo di creare a Torino, al Gobetti, una sorta di cittadella della drammaturgia contemporanea. Racconta che, al suo arrivo, l’anno scorso, dovendo programmare l’attività dei cinque teatri, si pose il problema della caratterizzazione. « giusto che in queste cose non ci sia un automatismo, ma si senta un progetto». Si accorse con sorpresa che era in grado di formare una stagione di soli autori italiani contemporanei, alcuni dei quali erano poco conosciuti a Torino. «Quale occasione migliore?» si chiese allora. Con la prospettiva del 2011 e anticipando le celebrazioni dell’Unità d’Italia, era in grado di «proporre al pubblico un caleidoscopio linguistico, un intreccio di Nord e Sud che è ancora il fondamento del nostro Paese». Per il Gobetti sono passati in questa stagione Laura Curino con la saga degli Olivetti, Goffredo Parise riletto da Paolo Poli, Ugo Chiti che riscrive Kafka, Sergio Pierattini con Il ritorno, Cesare Lievi autore della Badante con cui ha appena vinto il premio Ubu come miglior testo italiano. Sono attesi il «difficile» Enzo Moscato con due spettacoli, Le doglianze degli attori a maschera e Compleanno; Arturo Cirillo con il suo spettacolo più longevo e applaudito, Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello; Eleonora Danco con i monologhi di Nessuno ci guarda; Stefano Massini con La commedia di Candido. E poi l’ultimo strappo con Tiziano Scarpa, Franco Scaldati, Spiro Scimone, Marco Isidori. Si tratta di autori che, a modo loro, son già dei classici, oppure si affacciano con prepotenza, con ferocia, con dolcezza su un panorama d’arte che gli Stabili tengono di solito in penombra, quando non li ignorano. E a sigillo di tutto, ecco a fine stagione il lavoro di Valter Malosti sulla drammaturgia del torinese Antonio Tarantino. «Un’operazione che sosteniamo non solo produttivamente - spiega Martone. - Cercheremo di valorizzarla in tutti modi mandandola in tournée». Benissimo. Ma poi? Riuscirà il miracolo di un anno a diventare un programma stabile di lavoro? Solo così, crediamo, il «progetto Gobetti» ha un significato. vero, risponde Martone. Intanto, da uomo prudente, vuol vedere come andrà quest’anno. Capisce che quella del Gobetti è la «stagione più rischiosa», perciò diventa fondamentale verificare il rapporto tra spettacolo e pubblico. «Ma è giusto continuare. Non credo che ciò sarà possibile nel 2010. Si potrà ricominciare a lavorare l’anno dopo. Nel 2011 avremo il dovere di affrontare la drammaturgia contemporanea. Ma bisognerà mettere sotto controllo diversi tasselli, anche economici». Nel frattempo Martone ha forzato le porte eburnee dell’università, ha coinvolto nell’impresa il Dipartimento dello Spettacolo. Ma come? La collaborazione teatro-università è stata per anni una leggenda metropolitana: tutti ne parlavano, ma nessuno la vedeva. E poi, paradossalmente, se c’è una categoria che di solito diserta i teatri, sono i docenti di storia del teatro, di letteratura teatrale, di drammaturgia contemporanea. «Ma adesso è vero», risponde Martone. E cita Roberto Alonge, che in nome della santa alleanza tiene un corso sulla drammaturgia di Ruccello; tira un ballo lo studioso di drammaturgia scandinava Franco Perrelli. Conseguenza? «Gli studenti vengono a teatro. Il Gobetti è diventato una loro aula di studio». E su questa prima conquista il maratoneta sorride.[FIRMA]SILVIA FRANCIA TORINO Gira intorno a una parola, il regista, Gabriele Vacis, quando parla dello Zio Vanja a cui sta apportando gli ultimi ritocchi, prima del debutto di lunedì al Carignano. Il termine, che torna più volte durante la presentazione del doppio evento (debutto dello spettacolo e del teatro ristrutturato), è «risparmioso». «Una parola coniata qui a Torino, trent’anni fa, in occasione del lancio pubblicitario della Fiat Uno», ricorda Vacis. A cui quell’aggettivo evoca un mondo: «Nasceva da un comune sentire tra l’universo della produzione e quello della cultura, da un clima che si respirava. Oggi i tempi sono cambiati, ma questo Vanja è calato nell’atmosfera che tutti percepiamo, la stessa, per dire, che fa compiere anche al presidente Obama scelte ”risparmiose”». «Così, in Zio Vanja troviamo un professore che vuole vendere la tenuta famiglia per ricavarne titoli, e quindi promuove l’economia virtuale, mentre il medico Astrov ragiona sovente di operazioni risparmiose o meno». Fuori di metafora, l’allestimento sembra allinearsi anche alla parola-guida, nel senso che sono bastati 500mila euro per realizzarlo, giocando a rispolverare materiali e costumi dai magazzini dello Stabile. «Gli habituée del teatro ritroveranno tante ”piccole cose di pessimo gusto” già viste» promette Vacis, sottolineando il valore aggiunto di questa «Madeleine un po’ gozzaniana». Che, per altri aspetti segna una rivoluzione: «Di solito metto mano pesantemente al testo, questa volta la traduzione è appena un poco disinvolta». «Per il resto - aggiunge - ho lavorato molto sulla sintonia di azioni e parole e sulla relazione tra attori e pubblico». Nel cast, Eugenio Allegri, Laura Curino, Michele Di Mauro, Paolo De Vecchi, Lucilla Giagnoni, Davide Gozzi, Alessandro Marchetti, Laura Panti e Francesca Porrini. Scene, luci e costumi sono di Roberto Tarasco.