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 2009  gennaio 28 Mercoledì calendario

Negli ultimi ventiquattro mesi la pirateria nel golfo di Aden e nel tratto di mare davanti alla Somalia è passato dallo stadio di impresa familiare a basso contenuto tecnologico a una vera industria sofisticata, efficiente e ad alto profitto

Negli ultimi ventiquattro mesi la pirateria nel golfo di Aden e nel tratto di mare davanti alla Somalia è passato dallo stadio di impresa familiare a basso contenuto tecnologico a una vera industria sofisticata, efficiente e ad alto profitto. Secondo un calcolo delle Nazioni Unite il numero di pirati è passato da una cinquantina di «addetti» nel 2006, a 1.500 alla fine dell’anno scorso, tant’è che il Consiglio di Sicurezza ha approvato due risoluzioni che autorizzano qualunque Stato a combattere la pirateria. La Somalia dal 1991 è devastata da una cruenta guerra civile; non esiste un’economia organizzata e ciascuno per vivere fa quel che può. Quindi pescatori e miliziani hanno unito le loro forze e, grazie all’impunità di cui di fatto godono, hanno trasformato la pirateria in un business milionario. Nel 2008 sono state attaccate almeno 160 navi di cui un centinaio catturate. I riscatti hanno fruttato 150 milioni di euro. Il grande successo dei corsari somali sta provocando un effetto emulazione, secondo Robert Davies, della Hiscox Insurance Company, assicurazioni navali, «per esempio in zone come la Nigeria e il Sudamerica ». Da qui la decisione dell’Ipsema, l’Istituto di previdenza per il settore marittimo, di estendere la copertura degli equipaggi delle navi italiane anche agli atti di pirateria. Nel mare del Corno d’Africa, da cui passano 30 mila mercantili all’anno, incrociano ormai almeno 50 navi da guerra di diversi Paesi. Dalla Danimarca alla Russia, dalla Germania, agli Stati Uniti, solo per citarne alcuni. Insomma, ci sono tutti, tranne l’Italia. Eppure la Somalia era una nostra colonia. Alle bande di somali, secondo l’Onu, si sono affiancate gang di yemeniti. L’8 settembre i bucanieri hanno sequestrato il cargo ucraino Faina, con a bordo 33 carri armati, 6 cannoni antiaerei, 6 lanciamissili calibro 122 e 36 lanciarazzi. E’ ancora nelle loro mani. Il 10 novembre è caduta in trappola la superpetroliera Sirius Star, con un milione di barili di petrolio (valore 100 milioni di dollari), rilasciata il 9 gennaio dietro pagamento di tre milioni di dollari, paracadutati da un aereo e in parte finiti in mare quando la barca con i pirati si è rovesciata mentre rientrava a terra. I negoziati per far tornare a casa la Faina, controllata a vista da navi da guerra, sono ancora in corso: «A nessuno interessa la sorte dell’equipaggio ”- ironizza al telefono con il Corriere Segulle Ali, portavoce dei pirati ”-. Tra poco vi sorprenderemo: cattureremo una nave da guerra». Secondo Matt Brydan, capo del gruppo dell’Onu che monitora le violazioni dell’embargo sulle armi in Somalia, «i pirati sono organizzati come imprese private: ci sono i finanziatori, con una strategia militare e una pianificazione, e gli sponsor, che procurano le barche veloci, il carburante, le armi e le munizioni, i sistemi di comunicazione e i salari dei bucanieri. Abbiamo i loro nomi: Garad Mohamud Mohammed, Mohammed Abdi Hassan "Afeweyne", Fara Hersy Kulan "Boyah"». Matt Bryden scrive nel suo rapporto al Consiglio di Sicurezza: «Per incrementare il proprio raggio d’azione, i pirati utilizzano navi madri ferme in alto mare. Fanno rifornimento non solo in Somalia ma anche in Yemen, a Al Mukalla e Al Shishir. Individuata la preda, dalle navi madre si staccano i barchini veloci con a bordo gli armati pronti all’arrembaggio. Hanno a disposizione telefoni satellitari, apparati Gps in grado di determinare la posizione geografica, serbatoi supplementari di carburante, piccoli radar, binocoli, rampini e scale telescopiche». Il primo pirata che sale sul mercantile abbordato ha un premio extra: una gigantesca 4 per 4. «Tra i pirati c’è un turnover continuo. Qualcuno arriva dall’estero, partecipa a un paio di sequestri, viene pagato e torna a casa », racconta Matt. Sono state individuate alcune somale residenti in Occidente che si offrono di sposare pirati che così, versando una cospicua cifra, possono ottenere visti per lasciare l’ex colonia italiana. Andrew Mwangura, a Mombasa monitora il traffico marittimo nell’Oceano Indiano con l’organizzazione East African Seafarers’ Assistance Programme, sottolinea: «Nessuna nave somala, o con il carico di proprietà di somali, è stata mai attaccata. A Mogadiscio attraccano regolarmente navi cariche di qualunque cosa, anche gipponi nuovi di zecca». Esistono almeno due gruppi di pirati. Il primo opera a nord in Puntland (nord est della Somalia). La loro base primaria è a Eyl, zona degli issa mohamud, sottoclan della tribù dei migiurtini. Ma altre bande operano dai porti di Bosaso, Ras Alula, Ras Hafun, Bayala, Qandala, Bargal e Garad. Il secondo gruppo opera più a sud, da Harardhere fino a Chisimaio, e secondo Bruno Schiemsky, esperto che ha studiato per le Nazioni Unite l’inferno Somalia, sta stringendo un’alleanza con i gruppi fondamentalisti islamici al shebab («gioventù» in arabo, una sorta di talebani del Corno d’Africa). Secondo Schiemsky, l’organizzazione criminale di Chisimaio è formata da diverse unità. Quella di sicurezza (28 uomini) difende le basi a terra. E’ dotata di tre tecniche (pick up con un cannoncino, ndr) che vengono spostate sulla battigia in caso di bisogno. Le unità di attacco sono due e si danno il cambio in mezzo al mare dove possono restare fino a 15 ore anche a 150 chilometri dalla costa. Ad Harardhere ci sono invece 4 unità ognuna con la propria specializzazione: localizzatori, individuano la preda e pianificano l’attacco, ex pescatori, conoscono il mare, armati, danno l’arrembaggio, negoziatori, sanno come ottenere il bottino più alto. I gruppi che operano a Chisimaio e Harardhere sono collegati e conducono spesso operazioni in comune. Per esempio, sempre secondo Schiemsky, la Sirius Star è stata catturata da un commando che veniva da Chisimaio ma è stata portata davanti ad Harardhere in attesa del riscatto. Bruno Schiemsky è certo che i pirati somali possano godere dell’appoggio di un certo numero di espatriati che provvedono al loro training: «I corsi sono cominciati nel giugno 2008 e gli istruttori erano bangladeshi, yemeni e indonesiani». Informazioni confidenziali raccolte a Mombasa dal Corriere della Sera parlano di istruttori occidentali al servizio dei corsari. «Probabilmente impiegati delle società di sicurezza che erano state incaricate dal governo federale di transizione somalo di proteggere le coste. Insomma sono dei mercenari. Non sono stati mai pagati e così si sono riciclati loro stessi, organizzando corsi di pirateria applicata. Per questo servizio sono stati pagati un milione di dollari», spiega un’autorevole fonte che chiede l’anonimato. Che i pirati godano della complicità delle autorità del Puntland (la repubblica semiautonoma e relativamente pacificata del nord est della Somalia) è fuori dubbio, almeno secondo il rapporto dell’Onu. Lo stesso Mohammed Mussa Hersi, l’ex presidente (che dopo due mandati non si è ripresentato) aveva raccontato di aver cacciato due ministri coinvolti nelle rapine del mare, e il vicecapo della polizia, Mohammed Adji Aden. Un caso curioso è avvenuto quando il 4 aprile 2008 è stato sequestrato il lussuoso yacht francese Le Ponant. Una settimana dopo, pagato il riscatto, la nave è stata rilasciata ma quando i pirati con il loro bottino sono arrivati sulla spiaggia a Garad sono stati attaccati da uno stormo di elicotteri della marina francese. Una parte del bottino è stata recuperata e 6 banditi catturati e portati in Francia. Sono rimasti a Parigi un mesetto e poi rimpatriati. Uno di essi, infatti, era imparentato con l’allora presidente della Somalia, Abdullahi Yussuf. La sfida Un capo dei bucanieri minaccia: «Il nostro prossimo obbiettivo sarà quello di catturare una fregata» Massimo A. Alberizzi Quale diaframma – non solo cronologico – separa il remoto archetipo piratesco di Long John Silver, il subdolo burattinaio dell’Isola del tesoro (gamba di legno e crudeltà inguantata in un sorriso seduttivo) dall’icona qualunque di Asad Abdulahi, uno dei tanti ex pescatori del Corno d’Africa (42 anni, 9 figli, primo sequestro di peschereccio straniero nel ’98, con bottino subito tradotto in set di mitra e motoscafi veloci)? C’è davvero un salto quantico tra il carattere romantico- dark di una pirateria esaltata dalla letteratura e quello aridamente affaristico di una Mafia Spa marittima in feroce incremento di fatturato? Per un verso, la differenza è marcata, ma non perché la pirateria «classica» fosse dotata di maggior glamour. Se ci affidiamo al libro di Peter Linebaugh e Markus Rediker («I ribelli dell’Atlantico », Feltrinelli) vediamo come nel periodo dell’apogeo – diciamo tra 1670 e 1730 – la pirateria inglese convogliasse tra le proprie file ex contadini ribelli, soldati smobilitati, piccoli possidenti espropriati e disoccupati, cioè in larga parte quella stessa «motly crew» o «massa eterogenea» perseguitata sia da Cromwell che da Carlo II, e decisiva (con i puritani) nella fondazione dei futuri Stati Uniti; in particolare, molti dei pirati erano ex membri della marina militare, ribelli e ammutinati da superlavoro e sottoretribuzione, che riconvertivano le navi di Stato in vascelli sotto la bandiera nera. Vascelli in cui, a smentita della vulgata, era disseminata una comunità democratica (i capitani erano eletti e vigilati dalla ciurma), multinazionale e multirazziale (vi confluivano persino i neri africani, nonostante molti pirati fossero ex mercanti di schiavi), sostanzialmente egualitaria (i bottini venivano redistribuiti) e tutt’altro che misogina (a bordo figuravano donne pirata come Anne Bonny e Mary Read, ispiratrici di racconti popolari). Insomma, nella pirateria «classica» si respira un clima anarco-libertario inimmaginabile negli attuali assalti hi-tech (con gps e satellitari) a yacht e petroliere. Per un altro verso, però, le due piraterie condividono il nemico e il destino. Proprio negli anni 30 del Settecento, la Corona decideva di combattere e reprimere la pirateria in quanto in contrasto con gli interessi immani dello schiavismo britannico (100 navi negriere intercettate dai pirati in due anni) esprimendo un’avversione condivisa da aristocrazia, proprietà terriera, clero e ceto politico-economico. E se oggi – come ci informa Chadwick Matlin su Big Money – l’emergente Mafia Spa marittima rischia un forte ridimensionamento da parte della marina militare internazionale, è perché le compagnie di navigazione cominciano a trovare insostenibili i costi assicurativi (con polizze maggiorate di 10 volte in un anno) o quelli di milizie come la Blackwater (nota per l’attività irachena), le cui prestazioni, al riguardo, sono alonate di incognite. Secondo regola aurea, nel capitalismo il pesce grande mangia sempre il piccolo: in ogni mare e in ogni tempo. Sandro Modeo «I pirati ci avevano già abbordato e agganciato la loro biscaglina, la scaletta di corda, al parapetto. stato solo per il coraggio dell’equipaggio e per un colpo di fortuna che ci siamo salvati ». Ivan Toshev, comandante bulgaro del cargo italiano Altair, 23 mila tonnellate, battente bandiera panamense, racconta l’avventura passata il 12 dicembre scorso. «Era mezzogiorno. Stavamo navigando nel Golfo di Aden in un corridoio a sessanta miglia dalla costa yemenita considerato sicuro, pattugliato dalle navi da guerra. Eravamo all’altezza del porto di Al Mukalla quando ho visto sul monitor del radar una puntino che si avvicinava a grande velocità. Ci siamo preparati al peggio, ho segnalato per radio che stavamo per essere attaccati, ma a due miglia da noi il motoscafo si è fermato. Ci ha aspettato». La Altair ha proseguito deviando la sua corsa, ma il barchino si è spostato lentamente per intercettarla. «Quando si è trovato a 70 metri i sette pistolero a bordo si sono messi a sparare mitragliate all’impazzata; molti proiettili hanno colpito la fiancata della nostra nave; per fortuna nessuno è riuscito a perforarla». Il motoscafo ha accelerato e si è portato sotto bordo: «Sono riusciti ad agganciare la biscaglina al parapetto, ma l’equipaggio l’ha rigettata in mare – continua il comandante dell’Altair ”. Il motoscafo ha girato intorno e ha tentato l’arrembaggio dalla parte opposta. Di nuovo sono riusciti ad agganciare la scaletta e di nuovo l’abbiamo sganciata. A quel punto i pirati hanno minacciato di affondarci e, imbracciato il lanciarazzi, hanno sparato. Siamo stati fortunati perché l’arma si è inceppata». «Sono scappati solo quando in cielo è comparso un elicottero decollato da una nave da guerra americana che aveva raccolto il nostro allarme» spiega il comandante Toshev. E aggiunge: «Ma prima ci hanno mitragliato di nuovo. Per fortuna le fiancate hanno tenuto e nessuna pallottola ha colpito l’equipaggio». I continui attacchi alle navi hanno indotto le società di sicurezza che hanno fiutato il business a mettere a punto programmi specifici per la protezione delle navi. Per primi si sono mossi gli inglesi, poi sono arrivati gli altri. Carlo Biffani, amministratore delegato del Security Consulting Group di Roma, ha appena aperto una filiale a Gibuti. «La nostra tecnica di difesa si basa sull’uso di armi non letali affidate a personale specializzato, due o tre guardie da far salire a bordo delle navi durante la parte pericolosa del viaggio ». Prima di tutti dissuasori acustici che agiscono fino a una distanza di 200 metri, colpiscono l’udito fino a far male: «Gli aggressori – spiega Biffani – sono così costretti a ritirarsi. Poi ci sono cannoni ad acqua o anche oggetti pesanti da lanciare nei punti giusti sulle barche dei pirati che, già stracariche di bidoni di carburante per aumentare l’autonomia, potrebbero facilmente rovesciarsi ». Si può anche pensare a una elettrificazione dei parapetti o a una blindatura delle porte d’accesso all’interno dell’imbarcazione. I fucili e pistole per ora sono vietate a bordo delle navi. Vietati soprattutto perché non si sa come portarli a bordo. «I permessi in questo senso vengono rilasciati con grande severità. Noi li abbiamo chiesti ma intendiamo usare le armi letali solo per legittima difesa, non certo per ingaggiare una battaglia con i pirati». Il costo di tre o quattro uomini per quattro giorni di navigazione in acqua pericolose è più o meno 4 mila euro. Una cifra abbordabile se si pensa che in caso di sequestro il riscatto da pagare supera quasi sempre il milione di dollari. M.A.A.