Alberto Stabile, la Repubblica 26/1/2009, 26 gennaio 2009
LA MIA FAMIGLIA DISTRUTTA DAL FOSFORO I SUPERSTITI RACCONTANO LE ARMI PROIBITE
A piedi nudi e a capo coperto, con le lunghe vesti che lambiscono l´acqua, le donne della famiglia Abu Halima cercano di cancellare i segni della devastazione che si è abbattuta sulla loro casa di Beit Lahiya. Ogni centimetro di pavimento, ogni palmo di parete vengono puliti con scope, spazzole e chili di detersivo, ma quell´odore che pervade le stanze resiste anche al vento che irrompe dalle finestre senza infissi. L´odore nauseante, dicono gli esperti, del fosforo bianco.
Sull´uso di questa sostanza, non vietato se adoperata in campo aperto, ma illegale se usata contro le persone o in ambienti densamente abitati, l´esercito ha annunciato l´apertura di un´inchiesta, affermando, tuttavia, di aver sempre agito nell´ambito della legalità. Amnesty international, invece, ha dichiarato di essere in possesso di «prove indiscutibili» che Tsahal abbia utilizzato ordigni al fosforo in modo indiscriminato. Da qui l´accusa di aver commesso «crimini di guerra».
Il governo israeliano ha subito reagito e, dopo aver imposto la censura sui nomi di soldati e ufficiali coinvolti nell´operazione, ieri ha annunciato di aver approvato uno scudo legale protettivo a favore dei militari israeliani nel caso dovessero essere chiamati a rispondere d´aver commesso violazioni dei diritti umani da qualche tribunale straniero. «Israele - ha detto Olmert - darà pieno sostegno ai comandanti e ai soldati che sono stati mandati a Gaza, così come loro hanno protetto noi con i loro corpi durante l´operazione». Il Guardasigilli e il ministro della Difesa, oltre ad un gruppo di legali, faranno parte di questo "ombrello" protettivo.
Omar Abu Halima, 18 anni, uno degli figli di Sabah e Sadallah Abu Halima, racconta quel pomeriggio d´inferno. I carri armati israeliani erano a un centinaio di metri dalla palazzina di famiglia di tre piani che sorge, allineata ad altre quattro o cinque case delle stesse dimensioni, nella zona chiamata Atara, dove finisce l´abitato di Beit Lahiya e cominciano le serre e i campi coltivati. Zona di fragole e agrumi, ma anche, qua e là, data la vicinanza al confine israeliano, di lanci di Qassam.
«Ero nella casa accanto, da un mio zio, quando abbiamo sentito tre o quattro esplosioni, una dietro l´altra. Mi sono precipitato. La nostra casa era avvolta da un fumo denso e bianco che non faceva respirare e dalle fiamme. Sono salito al secondo piano e ho visto mia madre avvolta nel fuoco. Nel corridoio c´erano i miei fratelli Abed di 14 anni, Said di 10, Hamza di 8 abbracciati a mio padre Sadallah, che di anni ne aveva 45. Bruciavano. Hamza diceva: voglio pregare, voglio pregare, ma subito dopo morì. Gli altri erano già morti. Mio padre non aveva più la testa». Nel reparto ustioni dell´ospedale Shifa, dove è ricoverata Sabah Abu Halima, la madre, anche lei di 45 anni, il primario Nafez al Shaban, laureato a Glasgow, specializzato negli Stati Uniti, è certo che a provocare le ustioni subite dalla donna e da altri feriti sia stato il fosforo. Racconta di essersi trovato per la prima volta nella sua carriera di fronte a piaghe che continuavano a bruciare, anche dopo ore, emanavano un odore insopportabile e soprattutto resistevano al normale trattamento di chirurgia plastica. «Tanto che - dice - su suggerimento di colleghi giordani ed egiziani che avevano avuto esperienze simili in Libano, abbiamo dovuto amputare».
Una tragedia nella tragedia è rappresentata dalla mancanza di soccorsi, sia nel caso degli Abu Halima, che in quello della famiglia Abd Rabbo, nel villaggio di Jabaliya (vicino all´omonimo campo profughi). Per dirla in breve, morti e feriti della famiglia Abu Halima sono stati messi su due macchine e su un trattore. La macchina con i morti, secondo il racconto dei sopravvissuti, bloccata al primo posto di blocco israeliano, è stata capovolta da un caterpillar militare. I cadaveri sono rimasti per giorni sull´asfalto. Sabah Abu Halima, la madre ferita, ha potuto raggiungere l´ospedale su un carro trainato da un asino.
Inutile chiedere se in zona ci fossero miliziani di Hamas. «Qui siamo tutti al Fatah - dice Osam, un vicino che era inquadrato nell´Autorità palestinese e continua a prendere lo stipendio da Ramallah -. Se ci fosse stato qualcosa ce ne saremmo andati». Anche se la domanda: «Andati dove?», resta senza risposta.
A Gaza, in questi giorni, non si parla soltanto di armi proibite, ma anche di armi sconosciute, come il missile che ha ucciso otto ragazzi, tre femmine e cinque maschi davanti alla Educational School dell´Unrwa, in pieno centro. Un ordigno che diffonde una pioggia di schegge piccolissime, taglienti come rasoi, di forma quadrata, dal lato di due o tre millimetri come quelle che brillano controluce, nella radiografia del braccio e del ginocchio di Adib al Rais, che si è salvato perché era all´interno del negozio. Il missile, all´impatto, ha provocato un buco sull´asfalto largo dieci centimetri e profondo trenta. Ma sul muro distante tre metri, sulle porte di ferro del piccolo supermercato e sui corpi delle vittime hanno infierito le schegge, grandi come coriandoli.