Roberto Sommella, MilanoFinanza 24/1/2009, 24 gennaio 2009
L’ITALIA D’ARABIA
Cosa c’entra il mega business mancato di Kakà con le attrezzature sportive Technogym? E perché c’è qualcuno ad Abu Dhabi che, perso il fuoriclasse brasiliano vuole rifarsi con pesi, pedane e manubri? Sulla carta i deal non hanno nulla da spartire ma c’è un facoltoso imprenditore dell’Emirato che unisce questi due destini. Si tratta dello sceicco Mansour Bin Zayed Al Nahyan, proprio lui, il padrone del Manchester City che voleva strappare per 150 milioni di euro il numero 22 del Milan a Berlusconi, fratello del più noto Al Khalifa Binzayed Al Nayan, sovrano di Abu Dhabi. E proprio il gioiello di Nerio Alessandri, patron dell’azienda divenuta famosa nel mondo e assurta agli onori delle cronache nel 2005 per il famoso regalo di Natale mandato dal Cavaliere a tutti i parlamentari di Forza Italia, starebbe per finire nel mirino di uno dei fondi dei sovrani degli Emirati Arabi Uniti. Per ora si tratta solo di un interesse, non ancora manifestato, per l’azienda leader mondiale nelle attrezzature per la preparazione atletica (tanto che nel 2007 Candover, uno dei colossi del private equity, ne ha rilevato il 40% pagando 400 milioni di euro), ma fonti bene informate legate alle istituzioni arabe parlano di una volontà per «rilevare una quota di minoranza». Chi vivrà vedrà, perché in questi tempi di crisi i possibili affari si sciolgono spesso come neve al sole. Ma qualcosa si muove, eccome.
Il caso Technogym rappresenta solo uno dei tre affari che i family office di Abu Dhabi, secondo quanto può ricostruire Milano Finanza, stanno mettendo a punto. Il secondo possibile target è Green Power di Enel per cui alcuni fondi dei sovrani di Abu Dhabi stanno studiando un dossier per lanciare una vera manifestazione d’interesse, nonostante le smentite ufficiali; il terzo, ancora nascosto ma in divenire, ha per oggetto una sconosciuta ma fortissima realtà: l’azienda Orton di Piacenza, leader mondiale delle valvole a farfalla per gli impianti petroliferi, fatturato di 60 milioni di euro, sede a Piacenza e proprietà anglossassone (Imi). I tre colpi, che farano certamente meno rumore di quello sfumato di Kakà, ma cominceranno a smuovere le acque della finanza italiana, sono solo la punta di un iceberg. Perchè di questi tempi le piccole e medie realtà del Belpaese fanno molto gola, soprattutto negli Emirati Arabi Uniti che hanno una fama internazionale di ottimi investitori di successo, silenziosi e senza pretese di scalate ostili. Proviamo a fare un po’ di chiarezza su chi c’è dietro questi fondi sovrani e quanto sono le loro disponibilità finanziarie. Un tesoro nascosto e sconosciuto.
I fondi di private equity principali del Medioriente si dividono principalmente in 4 grandi categorie.
1) Fondi a capitale pubbico o meglio conosciuti come fondi sovrani quali Adia, Abu Dhabi Investment Council, Mubadala (tre realtà che fanno capo al Sovrano Al Khalifa con una capacità finanziaria enorme di oltre i 1.500 miliardi di dollari), Dubai International Capital, Istithmar, Investment Corporation of Dubai, Kuwait Investment Authority e Qatar Investment Authority.
2) Fondi a capitale privato come, per fare solo alcuni nomi, Abraaj Capital, Gulf Capital Partners, Al Qudra, Shua Capital Partners, Evolvence (UAE) e Unicorn Investment.
3) I fondi dei sovrani o family office, che amministrano e investono direttamente per conto dei vari membri delle diverse famiglie reali del Golfo, quelli che sono realmente interessati alle piccole e medie imprese italiane come Technogym e Orton, potendosi muovere con più libertà e che rispondono ai nomi di Emirates International Investment Company, Abu Dhabi Investment Group and Investment Holdings (che fa capo proprio allo sceicco Mansour, patron degli sky blues di Manchester e ministro degli Affari Presidenziali del Governo degli Emirati) e Kingdom Holding Company (facente capo al Principe Al-Waleed bin Talal bin Abdul Aziz Al Saud).
4) La quarta e ultima categoria dei fondi arabi è rappresenta dai grandi gruppi familiari industriali che oggi controllano holding di partecipazioni con migliaia di dipendenti , come Al Ghurair Group , Al Habtoor Al Futtaim e Al Raij, la cui banca omonima ha provato negli anni scorsi ad aprire sportelli in Italia ma fu respinta con perdite dall’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Ora ci proverà di nuovo.
Storicamente i family office si sono occupati di asset management, diversificazione del portafoglio titoli e investimenti in start up locali nei settori del real estate e dei financial service. Ma oggi, racconta un’altra fonte del Golfo, «i fondi dei sovrani iniziano a guardare con grande interesse a opportunità d’investimento al di fuori dei confini regionali grazie alla situazione di mercato che offre loro possibilità di acquisire partecipazioni rilevanti in gruppi industriali a prezzi di mercato borsistico estremamente conveniente». Che cosa interessa di più a queste finanziarie? Business model facilmente replicabili in Medioriente, ove in molti settori ci si trova di fronte a stadi iniziali di sviluppo. Spesso i family office, o fondi dei sovrani che dir si voglia, permettono alle aziende acquisite di operare nella forma di join venture locale e di consolidare la loro partecipazione a monte in Europa ed Usa , dove spesso la casa madre è quotata.
I quattro fondi principali di private equity dell’area Middle East, sono Abraaj Capital (Uae), Alwaal el Khaleej (Arabia Saudita), Global Investment House (Kuwait), Unicorn Investment Bank ( Bahrain). Il focus regionale di questi fondi è principalmente anche se non esclusivamente l’Area Mena (Middle East North Africa); infatti molti di loro hanno sedi regionali al Cairo, Amman, Riadh, Pakistan. Il loro focus principale è di investire sia in operazioni di start up, ma con un taglio medio di 50 milioni di dollari, in tutti quei settori industriali o di servizi dove non esiste ancora un ex monopolista e che prevedono tassi di crescita a doppia cifra in pochi anni. Anche questi potranno sbarcare presto in Italia.