Alessandra Carpegna, La Stampa 27/1/2009, 27 gennaio 2009
ALESSANDRA CARPEGNA
Il senso di colpa di chi è rimasto vivo dopo l’esperienza del lager e che è presente in tutte le sue opere che trattano l’argomento dell’internamento, è un sentimento che anche Lei ha provato?
«Devo dire che io proprio non l’ho mai sentito, perlomeno appena ritornato dal lager ho vissuto per molti mesi in un grande disagio, ma è difficile applicare un’etichetta a questo disagio. Certamente era un trauma che avevo subito, io come molti. Ne sono poi guarito miracolosamente in poche ore, anzi in pochi minuti, incontrando la mia futura moglie che mi ha rimesso in contatto con il mondo. Però ho parlato con molti reduci dei lager e molti mi dicevano questo, mi dicevano: "sì, io sono forse vivo al posto di un altro, che meritava di vivere più di me". Io stesso ne ho accennato in Se questo è un uomo dove si parla della selezione di ottobre e di un certo René che è molto più robusto di me ma viene mandato in gas e io dico fra me e me: "può darsi che sia uno sbaglio, hanno incrociato le due cartoline, dovevano mandare me ed invece hanno mandato lui". Ora, questo è vero, è proprio successo, ed io ho avuto questo sospetto di essere vivo in cambio di lui, ma, per quanto mi riguarda, non ho mai provato nitidamente questo senso di colpa che ho descritto. Però l’ho sentito descrivere da molti».
Ritornare alla vita normale dopo un anno di lager, cosa è stato?
«Devo dire che c’è stata questa tregua di mezzo, per questo l’ho chiamata La Tregua. stata probabilmente provvidenziale, perché ha permesso a tutti noi di riabituarci poco per volta, ha inserito, insomma, un cuscinetto di tempo fra una esperienza e l’altra. Malgrado questa tregua, i primi mesi in Italia sono stati molto duri. Ma poi ha prevalso, intanto l’incontro con mia moglie, ed è stato anche importante ritrovare il mio lavoro di chimico. E poi in Italia allora c’erano tante speranze: c’erano le strade piene di macerie, non c’era riscaldamento nelle case, c’erano delle stufe a legna, si viveva molto male in quell’inverno, però c’era la speranza di costruire un paese civile, moderno e prospero ed invece poi… non ha funzionato tanto».
Lei che ha «visto la morte da vicino», come si dice, quando sente di quelle persone che si tolgono la vita per motivi che potrebbero sembrare banali, che cosa pensa nei loro confronti?
« una domanda terribile. Nessuno, secondo me, è in grado di capire un suicidio. Per lo più non lo capisce neppure il suicida: è raro che chi si uccide sappia la vera ragione per cui lo fa. Non c’è un rapporto preciso fra l’esperienza del lager e il suicidio. Anzi nel lager il suicidio era praticamente assente. Perché questo avvenisse e perché, invece, ci siano tanti più suicidi quanto più la società sia prospera, fatto questo abbastanza noto, è mal spiegato. Io ho una mia teoria personale e penso che il suicidio sia un atto altamente personale ed intellettuale, se si vuole patologico, ma gli animali non si suicidano. Ed in lager la vita era quella dell’animale: non c’era tempo per pensarci, c’era da pensare a mangiare, a proteggersi dal freddo, a proteggersi dalle botte. Il tempo per meditare sulla vita e sulla morte e di scegliere per il suicidio non c’era. Questo è quanto penso io. Ho letto in molte documentazioni, non l’ho visto io per mia fortuna, ma ho letto in molti libri che questo era stato notato in tanti campi di profughi. Proprio profughi che si erano salvati da condizioni disastrose e non si erano uccisi in lager od in condizioni analoghe e si erano, poi, uccisi dopo. Forse tornati a casa non avevano più trovato una famiglia, non avevano più trovato una patria e questo è anche molto importante. Io ho avuto, tra le tante fortune, quella di ritrovare il mio paese; io sono italiano, parlo italiano, mi considero italiano per l’80% e ebreo per il 20%, sono inserito nella vita del paese, non ho avuta nessuna difficoltà di reinserimento. Chi si era salvato era nelle condizioni di Mendel /, cioè senza più paese, senza più moglie, senza più famiglia, senza più amici, era solo al mondo».
Che cos’è l’uomo per Lei?
« una domanda molto difficile: si può rispondere cos’è l’uomo per l’antropologo, cos’è l’uomo per il filosofo, cos’è l’uomo per lo storico. Non saprei quale via scegliere, ma non credo di avere dell’uomo, io, una visione molto diversa da quella che hanno tutti. Io credo che l’uomo abbia dei doveri oltre che dei diritti, che l’uomo debba rivendicare con energia i propri diritti ma debba adempiere ai propri doveri».
L’arte per l’uomo: è un mezzo di evasione o di espressione della propria personalità?
«Chi potrebbe dubitare di questo, certamente sì. L’arte quando è arte sul serio e non commercio, è questo e non altro: un modo felice di esprimersi. Non c’è persona più felice dell’artista nell’atto in cui esercita il suo uffizio. Io devo dire che il 1981 che ho passato a scrivere Se non ora, quando è stato un anno felice per me. Non avevo altro per la testa, tutto il resto mi sembrava secondario, lavoravo delle volte quattro ore, delle volte sei, delle volte un’ora, altre volte niente, ma mi sentivo in pace con il mondo».
Nel lager per l’arte c’era un certo riconoscimento oppure assolutamente no?
«Stranamente sì. C’erano dei pittori ed avevano la vita abbastanza facile almeno quelli furbi, perché facevano il ritratto alle SS. E questo era apprezzato, naturalmente dovevano essere talmente abili da farsi valere, da riuscire a dimostrare di essere in grado di farlo. Questo però non so che valore possa avere: non è che si apprezzasse l’arte. Ho conosciuto uno che sapeva, o diceva di sapere, leggere la mano ed allora faceva il chiromante per le SS imbrogliandoli. In lager la regola numero uno era che non bisognava mai essere "qualunque". Un modo buono per salvarsi consisteva nel dimostrare di avere qualche dote particolare».