Domenico Quirico, La Stampa 27/1/2009, 27 gennaio 2009
Sarà questa, in fondo, la sua ultima sfilata, quella in cui si metteranno in mostra, nell’intimo, cinquant’anni di una vita dedicata alla assidua, dionisiaca ricerca del bello
Sarà questa, in fondo, la sua ultima sfilata, quella in cui si metteranno in mostra, nell’intimo, cinquant’anni di una vita dedicata alla assidua, dionisiaca ricerca del bello. L’ultima sfilata di Yves Saint Laurent, dunque: la più fastosa e la più irripetibile, non più vestiti, effimeri tributi alla bellezza e al tempo, ma la storia dell’arte e del gusto, dalla Grecia antica al Novecento. Una collezione non è mai soltanto un insieme di oggetti, il resoconto di investimenti di denaro, di folgoranti innamoramenti per quanto l’uomo ha saputo far uscire dalla magia della mente e delle mani. , in questo caso, la storia di una amicizia, di una confidenza reciproca, di un amore. Per la raccolta messa insieme da Yves Saint Laurent, un uomo che aveva ancora i modi del diciottesimo secolo, e da Pierre Bergé, il suo compagno, siamo davvero in una scintillante vicenda speculare, un fastoso dittico al cui centro, appannando di tristezza il gioco dei riverberi, si incunea la morte, lo scorso anno, del grande artista della moda. Invece per collezionisti, antiquari, galleristi, direttori di musei, miliardari, tra cui da mesi, da quando la voce si è fatta notizia trasformandosi in un frenetico brusio che corre il mondo, sarà l’asta del secolo. Sono 733 oggetti messi insieme con un solo folgorante criterio: «Meglio un muro vuoto che un oggetto, un quadro mediocre». Così è difficile trovare qualcosa che non sia un capolavoro, nel catalogo che questi alacri fantastici curiosi colti e ricchi adoratori del Bello. La galleria dei pittori comprende Cézanne, Matisse, Manet, Vuillard, Gauguin, Goya, Munch, Mondrian, Léger, Picasso, Brancusi; e ancora mobili, bronzi arazzi; e poi oro argento avorio. Un solo filo comune: la divina saggezza di mescolare le epoche, una leggerezza di stile che rimanda alle fastosità dei duchi di Noailles e di cui la modernità ha fatto purtroppo scempio. Oggi è tempo di investitori, i collezionisti sono ormai Storia. Gli esperti della sezione francese di Christie’s annunciano un possibile risultato finale di 3-400 milioni di euro. Perfino il governo cinese si è interessato: ha chiesto che l’asta fosse bloccata perché in catalogo compaiono alcune statue che furono prelevate dalle truppe francesi durante il saccheggio dei palazzi imperiali ai tempi della rivolta dei boxer. Sarà la fine di un’epoca. Ormai le leggi che regolano le tasse di successione e l’attenta avidità dei musei che si gettano su ogni occasione ghiotta, rendono impossibili aste di questa grandezza. Il risultato di innumerevoli ore di lavoro è lì, impressionante: cinque cataloghi, 1800 pagine, riuniti in un sontuoso cofanetto che sarà venduto a 200 euro. Sarà edito in settemila esemplari con una prefazione di Pierre Bergé. Appuntamento allora il 23, 24 e 25 febbraio a Parigi, ore 19. Anche lo sfondo sarà irripetibile, il Grand Palais, per la prima volta offerto per un’asta; l’affitto è di un milione di euro. Saranno tredicimila metri quadri, necessari per mostrare tutti gli oggetti, un’ora almeno il tempo necessario per la visita, affidati all’allestimento di una giovane e brillante diplomata all’Ecole Boulle. Nathalie Crinière con la sua agenzia di New York ha già vinto l’appalto per il Louvre esportato ad Abu Dhabi. Ha scelto una struttura modulare che riproduce gli ambienti dove la collezione era custodita, ricreandone l’intimità e il decoro. Un museo fastoso ed effimero. Una sala con 860 posti ospiterà i compratori. In questa regale agonia sparirà l’unica opera d’arte irripetibile: la collezione stessa, che viveva del suo sfondo, il sontuoso regno di fiaba dei saloni delle due case che la ospitavano, in Rue Bonaparte, dove nacque Manet e morì il maresciallo Lyautey che regalò alla Francia un impero, e in Rue de Babylone, in stanze impregnate delle atmosfere impresse da una grande appassionata di arte moderna, Marie Cuttoli. Pierre Bergé il 23 febbraio sarà lì, nascosto in qualche luogo, per assistere al miliardario funerale della sua collezione. Obbedisce così a una legge universale secondo cui l’ultimo gesto della mano ordinatrice deve essere quello di cancellare le impronte visibili del proprio lavoro. Vendere è una decisione che ha preso da solo, per non avere ricordi, o rimpianti, assicura. Ma questa è quasi certamente una bugia: «Non è una questione di denaro. Alla morte di Yves ho giudicato che questa collezione non aveva più alcuna ragione di essere. Non sarò triste, le opere non muoiono mai. Mi piace pensare che erano da noi soltanto di passaggio, io so di poter vivere senza di loro. Per Yves no, sarebbe stato impossibile». Venderà tutto, giura, conserverà solo una scultura africana che rappresenta il mitico uccello «senofoui», il primo pezzo della collezione; e il ritratto di Yves, dipinto dal loro amico Warhol.