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 2009  gennaio 27 Martedì calendario

Nel considerare la vita e le opere di Georges Simenon viene spontaneo chiedersi: ma era umano? Perché Simenon era dotato di energie, creative ed erotiche, straordinarie

Nel considerare la vita e le opere di Georges Simenon viene spontaneo chiedersi: ma era umano? Perché Simenon era dotato di energie, creative ed erotiche, straordinarie. Scrisse più di 400 romanzi sotto diversi pseudonimi, un numero infinito di racconti e di sceneggiature per il cinema e scrisse migliaia di pagine di memorie. Riusciva a stendere un romanzo in una settimana o in dieci giorni, battendo a macchina furiosamente, senza mai rivedere il suo lavoro (e a volte si nota). Si dice che a Parigi, negli anni Venti, avesse troncato una relazione con Josephine Baker, la chanteuse americana star della Revue Nègre, perché nell’anno in cui era stato con lei, la passione l’aveva tanto distratto che era riuscito a scrivere solo tre o quattro libri. Si procurava spesso distrazioni di quel tipo. Nel 1976, ultrasettantenne, in un’intervista uscita sull’Express rivelò all’amico Federico Fellini di aver avuto diecimila donne. Aveva cominciato presto, perdendo la verginità a dodici anni con una ragazza di tre anni più grande, che l’aveva convinto a cambiare scuola in modo da poter continuare a frequentarlo e poi l’aveva lasciato per un altro fidanzatino. Il giovane Georges aveva ricevuto la prima lezione di vita. Era nato a Liegi, in Belgio, nel 1903, da un padre bonario ma debole e da una madre terribile con cui, per tutta la lunga vita di lei, ebbe un’intensa relazione di odio-amore. A sedici anni lasciò la scuola per diventare reporter alla Gazette de Liège, e si unì alla Caque, un gruppo di dandy e bohémien che aveva come guida spirituale il pittore Luc Lafnet. La Caque era un gruppo di ragazzi sfrenati che bevevano, facevano uso di droghe e professavano il libero amore. «Eravamo un’élite», scrisse più tardi Simenon. «Un piccolo gruppo di geni che il caso aveva riunito». Erano anche pericolosi e, almeno in un’occasione, si rivelarono autodistruttivi. All’alba di una mattina d’inverno, dopo una notte passata a bere, un ragazzo del gruppo, Joseph Kleine, « le petit Kleine », aspirante artista e cocainomane a cui il nome si addiceva, essendo minuto e di debole costituzione, fu trovato impiccato alla porta della chiesa di Saint-Pholien a Liegi. Si pensò a un suicidio, o a un omicidio camuffato da suicidio. La mattina successiva la Gazette de Liège scrisse che il giovane si era senza dubbio ucciso. Passarono molti anni prima che Simenon ammettesse di essere stato l’autore di quell’articolo, opportunamente uscito prima che la polizia avviasse delle indagini. «Ho voluto dichiarare la nostra innocenza », scrive nelle sue memorie. «O piuttosto la mancanza di premeditazione... Non sapevamo in che stato fosse il " petit Kleine". Ma non siamo noi, in fondo, che l’abbiamo ucciso?» L’immagine dell’impiccato colpì molto Simenon. Il secondo romanzo di Maigret è intitolato L’impiccato di Saint-Pholien, e in uno dei romanzi più belli, Gli intrusi, pubblicato nel 1940, c’è una banda di ragazzi sfrenati e autodistruttivi, che si richiama chiaramente alla Caque, e le cui bravate culminano in un omicidio. Simenon conosceva bene quel che descriveva. Nel 1920, a diciassette anni, pubblicò il primo romanzo, Au Pont des Arches, corredato da illustrazioni di diversi artisti, tra cui il suo mentore, il vagamente satanico Lafnet. Au Pont des Arches, un libro divertente, in ambito locale ebbe successo. Simenon l’aveva firmato Georges Sim, uno pseudonimo che avrebbe usato per qualche tempo e che mantenne anche quando tre anni dopo si trasferì a Parigi con il proposito di diventare un vero scrittore. Cominciò a mostrare le sue storie a Colette, allora collaboratrice del giornale Le Matin, che gli consigliò di sfrondare al massimo il suo stile. Fu sicuramente il miglior consiglio che avesse mai ricevuto, e saggiamente lo seguì. Si mise a scrivere racconti popolari riscuotendo un notevole successo, e sfornò libri con una ventina di pseudonimi diversi. Verso i venticinque anni, ormai ricco, si imbarcò in una serie di viaggi attraverso l’Europa, l’Africa e, nel 1934, intorno al mondo. Il lavoro frenetico e l’ossessiva irrequietezza caratterizzeranno gran parte della sua vita. Nel 1923 sposò una giovane pittrice, Régine Renchon, ma il matrimonio finì quando, a New York, subito dopo la guerra, incontrò Denyse Ouimet, una franco-canadese più giovane di lui di diciassette anni, conosciuta mentre era alla ricerca di una segretaria. Si sposarono nel 1950 a Reno (sposarsi nella capitale americana del divorzio vuol dire senz’altro sfidare la sorte), e andarono a vivere in Connecticut, dove rimasero per cinque anni. Nel 1955 tornarono in Europa, stabilendosi a Losanna in una casa enorme, Epalinges, progettata da loro stessi, una casa con l’aspetto e la clinica funzionalità di un ospedale. Quando il suo secondo matrimonio naufragò (Simenon aveva da tempo una relazione con una domestica), Ouimet cadde in depressione. Nel 1964 lasciò l’asettica Epalinges per un vero ospedale. Poco dopo anche la tormentata figlia Marie-Jo dovette ricorrere, senza risultati, alle cure psichiatriche, e nel 1978 si uccise. Marie- Jo era stata sinceramente e disperatamente innamorata del padre fin dall’infanzia. In un volume di memorie pubblicato nel 1981, Simenon accusò Ouimet per questa tragedia. In Pietr il lettone (1930), il primo romanzo che Simenon pubblicò con il suo vero nome, fece la comparsa il suo personaggio più noto, l’ispettore Maigret, il detective con la pipa sempre in bocca. Tra il 1930 e il 1973, l’anno in cui decise di abbandonare la narrativa e prese a stendere le sue memorie, Simenon scrisse un’ottantina di romanzi di Maigret. soprattutto su di essi che si fonda la sua fama. stato calcolato che siano state vendute cinquecento milioni di copie di «Simenon» in cinquanta lingue, ma le sue opere migliori sono i romans durs, i romanzi duri. La letteratura poliziesca, anche quando è dura e truculenta, ha di solito un nucleo sentimentale, perché quasi tutti gli scrittori di gialli sono dei romantici delusi. William T. Vollmann, nella postfazione al capolavoro di Simenon, La neve era sporca, paragona lo scrittore belga a Raymond Chandler, i cui romanzi con Philip Marlowe, con la loro eleganza, l’umorismo e le raffinate metafore, ora ci sembrano decisamente «blandi». «I romanzi di Chandler – scrive Vollmann – sono noir pervasi da una luce malinconica; Simenon ha condensato il noir in un nero spesso e solido come il cuore di una stella nana». Solo Patricia Highsmith si avvicina alla capacità (l’ossessione, a dire il vero) di Simenon di mostrare il mondo com’è realmente, in tutto il suo squallore, le sue lusinghe, la sua casuale crudeltà; i personaggi di Highsmith, però, sono sottili come la carta a paragone degli uomini e delle donne del maestro francese, dotati di un vitale spessore. I neofiti di questo Simenon esistenzialista (i libri di Maigret, pur piacevoli, sono spesso ripetitivi e un po’ frettolosi) dovrebbero cominciare con Gli intrusi, che è il roman dur per eccellenza: diretto, essenziale, sensuale nelle atmosfere, ipnotico nel suo realismo, è sincero a un grado che pochi scrittori oserebbero raggiungere. La presentazione degli eventi del romanzo potrebbe applicarsi al libro stesso: «Fu perché tutto cominciò con grande violenza – nel fango, nel sangue e nel vomito – che ogni cosa giunse rapidamente al climax». Il personaggio principale del libro è Loursat, avvocato di provincia di origini aristocratiche che da quando, vent’anni prima, è stato piantato dalla moglie vive da recluso, alcolizzato e misantropo. Una notte d’inverno è svegliato dal rumore di uno sparo proveniente da una delle camere della sua grande e vecchia dimora. Dopo qualche ricerca trova su un letto un uomo con il collo trapassato da un proiettile, che muore dinanzi ai suoi occhi. Si viene poi a sapere che la figlia, che vive con Loursat ma che dalla scomparsa della madre non ha quasi scambiato parola con lui, all’insaputa del padre intrattiene tutte le sere, all’ultimo piano della casa, una banda di amici, uno dei quali è l’assassino. Secondo una linea tipica dei romanzi di Simenon, la scoperta di questa vita segreta che gli si svolgeva accanto senza che la vedesse fa uscire Loursat dal suo ventennale letargo e gli ridà energia e voglia di vivere. Henri Cartier-Bresson definiva «momento decisivo» quello in cui si riesce a cogliere l’essenza indifesa della realtà, ed è intorno a questi momenti che Simenon costruisce la narrazione. In un passaggio che non solo riassume questa storia in particolare, ma è emblematico di tutti i romans durs, l’autore descrive gli appassionati sentimenti che si affollano improvvisamente nel cuore, fino a quel momento intorpidito, di Loursat: «Scoprire un nuovo mondo, nuove persone, nuovi suoni e odori, nuovi pensieri, nuovi sentimenti, un mondo frenetico, formicolante, che non aveva a che fare con le gesta epiche e tragiche della letteratura, un mondo pieno di tutti i dettagli misteriosi e banali che non si trovano nei libri – il soffio di aria fredda in un lurido cortile, il vagabondo all’angolo di una strada, un negozio che rimane aperto a lungo dopo che tutti gli altri hanno chiuso, un ragazzo impaziente e nervoso che aspetta tutto agitato fuori del negozio di un orologiaio l’amico che lo condurrà verso un futuro nuovo e sconosciuto». La neve era sporca, pubblicato otto anni dopo Gli intrusi, è un’opera straordinaria. Finita a «Tucson (Arizona), il 20 marzo 1948», fu pubblicata lo stesso anno in Francia con il titolo La neige était sale. Cattivo, brutale e non molto lungo, il libro ha una visione assolutamente hobbesiana della vita su questo pianeta in declino: tutti sono in guerra contro tutti. ambientato in una città europea non nominata, probabilmente Liegi, durante l’occupazione tedesca. Nel corso di un inverno che sembra interminabile, il protagonista Frank Friedmaier compie 19 anni. Lo incontriamo la prima volta di notte, in un vicolo pieno di neve, con in tasca un coltello preso in prestito, mentre aspetta con torva trepidazione di commettere il suo primo omicidio, un acte gratuit alla Gide che lo stesso Gide avrebbe sicuramente trovato scioccante. La vittima di Frank sarà un sottufficiale delle forze di occupazione, chiamato l’Eunuco. Frank non ha motivo di ucciderlo; è semplicemente un rito di passaggio da compiere, una verginità da perdere. Per Frank «si trattava di uccidere il primo uomo e collaudare il coltello svedese di Kromer », spinto anche dal desiderio di non essere da meno dell’amico Kromer, che ha già commesso un omicidio particolarmente efferato, descritto nella seconda pagina del libro. Il passaggio è un esempio molto significativo dello stile svelto, scorrevole e apparentemente spontaneo di Simenon, o del suo non stile, imperturbabile al punto da sembrare indifferente e tuttavia terribilmente, incredibilmente avvincente. Uscendo dal bar di Timo, Kromer, teppistello dilettante, è assalito da un «ometto magro, pallido e febbricitante», cui, a quanto pare, aveva venduto qualcosa che non l’aveva soddisfatto e che ora cerca di rivalersi. L’ometto afferra Kromer per il colletto del cappotto e comincia a urlargli contro. «Kromer, in mezzo al vicolo scuro tra due sponde di neve, si levò il sigaro di bocca con la mano sinistra e sferrò un pugno con la destra, una volta sola. Allora si videro due braccia e due gambe finire in aria, come quelle di una marionetta, e poi la sagoma nera sprofondò nel mucchio di neve lungo il marciapiede. La cosa più strana era che accanto alla testa ci fosse una buccia d’arancia, che certo non si sarebbe potuta vedere in nessun’altra parte della città se non davanti al bar di Timo. Timo uscì senza giacca né cappello, così com’era al bar. Toccò la marionetta e protese il labbro inferiore. "Ha avuto il fatto suo", grugnì. "Tra un’ora sarà stecchito" » Il punto centrale dell’intera scena è, ovviamente, quella buccia d’arancia. Frank vive con la madre, Lotte, che tiene in casa un bordello. Non sa chi sia il padre, ma sospetta sia l’ispettore di polizia Hamling, un cliente affezionato che per Lotte, in quegli anni pericolosi, è una sorta di protettore. Frank si è fissato, però, su un’altra figura paterna a lui assai più gradita: Holst, un vicino di casa, intellettuale caduto in disgrazia e costretto a fare il conducente di tram. Holst ha una figlia, la candida e innocente Sissy, innamorata di Frank, che la ripaga inducendola a sacrificare la verginità non a lui, come la ragazza crede, ma a Kromer, dal quale si fa sostituire nell’oscurità della camera da letto. Quando Sissy si accorge del tradimento, scappa di casa e rischia di morire nella neve. Nel frattempo Frank uccide di nuovo, per rubare degli orologi antichi che rivenderà a un ufficiale tedesco. Alla fine viene arrestato, non per gli omicidi commessi, che sembra non importino a nessuno, ma per l’occasionale contatto avuto con l’ufficiale tedesco, che aveva pagato gli orologi con denaro sottratto all’amministrazione. Frank è sospettato anche perché si scopre che una delle ragazze che lavorano per sua madre fa parte della resistenza clandestina. Con il passare dei giorni volge sempre di più lo sguardo dentro di sé. un viaggio esistenziale in cui man mano arriva a capire se stesso e l’assurda situazione in cui si trova – non la condizione di trovarsi in prigione, ma, al contrario, quella dell’essere liberi, il più pesante dei fardelli. Holst e Sissy ottengono il permesso di andare a trovarlo, forse con il diabolico intento di indurlo a confessare. Sissy gli dice, con sua grande sorpresa e gioia, che continua ad amarlo, ma ancor più del suo perdono conta il momento in cui Holst «posa la mano sulla spalla di Frank, proprio come lui sapeva che avrebbe fatto un padre». Dopo di ciò la morte è per Frank solo un fatto casuale, il superfluo finale di una vita già compiuta. Quel che Frank vuole, come fa notare Vollmann, è che lo si conosca: «Non sa molto di sé, o di altro che valga la pena di sapere. Ma se lo sguardo dell’Altro potesse rivelarlo a se stesso, allora forse comprenderebbe qualcosa». Quel che rende però il libro tanto terribile è che al culmine di questa ricerca di autenticità, nonostante il gesto paterno di Holst e la promessa d’amore di Sissy (Vollmann sostiene, a ragione, che la visita in prigione di Holst e Sissy è l’unica nota falsa del libro), Frank scopre che anche l’autenticità non è poi gran cosa. A differenza di Joyce, che pur vantandosi di essere invisibile nelle sue opere è presente ovunque, Simenon riesce davvero a sembrare un osservatore indifferente, uno che si sta tagliando le unghie, distaccato dal mondo da lui creato. Nell’atmosfera dura, sudicia e maligna di La neve era sporca, si potrebbe però scorgere una traccia della mauvaise conscience di uno scrittore che aveva vissuto tranquillamente nella Francia occupata e che alla fine della guerra era stato accusato di collaborazionismo, tanto da essere costretto a fuggire in Canada per poi passare negli Stati Uniti, nonostante le accuse fossero nel frattempo cadute. In Tre camere a Manhattan, pubblicato nel 1946, il protagonista, François Combe, noto attore francese prossimo alla cinquantina, rifugiatosi in America in seguito alla separazione scandalosa e umiliante inflittagli dalla moglie attrice, è un autoritratto appena mascherato. In un bar di Manhattan François incontra Kay Miller, un’espatriata viennese che vive in America un’esistenza precaria e, suo malgrado, si innamora di lei. A sua volta, Kay è senza dubbio un ritratto di Denyse Ouimet. Parlando del romanzo, Joyce Carol Oates ne riconosce la natura autobiografica e vede Simenon, «il maestro dell’ironia... sopraffatto dalla sorpresa per quel che gli sta succedendo, soccombere a una romantica infatuazione di mezza età». Il desiderio di fuggire dai problemi della vita e scomparire nell’anonimato, comune a molti uomini e a qualche donna, è un tema ossessivamente ricorrente nelle opere di Simenon, ma in nessuna è espresso in modo più preciso e convincente che in La fuga del signor Monde. Norbert Monde – Simenon è bravissimo a scegliere i nomi – è un uomo d’affari accorto e di successo, titolare della ditta import-export fondata dal nonno. La mattina del suo quarantottesimo compleanno – la stessa età, tra l’altro, di François Combe in Tre camere e dello scrittore al tempo del matrimonio con Denyse Ouimet – il signor Monde si fa tagliare i baffi dal barbiere, ritira 300.000 franchi dal conto in banca, cambia il vestito di sartoria con uno anonimo di seconda mano e abbandona la sua vita senza dir nulla a nessuno. La fuga di Monde non è provocata da crisi esistenziali, anche se il lavoro non lo interessa più e le relazioni familiari sono problematiche; più che una fuga è un lasciarsi trascinare, «seguendo un piano preordinato di cui non è responsabile». Prende un treno per Marsiglia e va a stare in un hotel modesto. La mattina dopo si sveglia in lacrime, «un fiume infinito che scaturisce da qualche sorgente profonda», e parlando tra sé senza muovere le labbra «esprimeva la sua infinita, dolorosa stanchezza, che era dovuta non al viaggio in treno, ma al suo lungo viaggio come uomo». Lo stato in cui Monde è caduto, o al quale si è sollevato, è al contempo di indifferenza e di estasi. «Era lucido, non della lucidità di ogni giorno, che consideriamo accettabile, ma di una lucidità di cui in seguito ci vergogniamo, forse perché conferisce alle cose ritenute banali la grandiosità che viene loro attribuita dalla poesia e dalla religione ». Alludere alla vergogna, qui, in maniera del tutto inattesa ma appropriata, è tipico di Simenon. Questi romans durs (come anche L’uomo che guardava passare i treni, altro racconto di un uomo in fuga; Colpo di luna, inquietante studio sulla passione e la violenza ambientato nel Congo belga; e Luci nella notte, descrizione provocatoriamente esplicita della vita americana, con tanto di alcolismo, coppie litigiose e violenze sessuali) sono grandi e raffinate opere d’arte, mascherate da letteratura popolare. Gide, che ammirava Simenon, pensava che non avesse dispiegato tutte le sue potenzialità artistiche, e probabilmente è vero. Se fosse riuscito a placare le sue ossessioni e a trovare il modo di rallentare il ritmo, forse avrebbe scritto l’opera meditata e a lungo coltivata che Gide si aspettava da lui. Ma quel libro probabilmente non sarebbe stato un «Simenon», mentre è proprio nei «Simenon» che Simenon esprimeva il suo genio prodigioso ed eclettico.