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 2009  gennaio 27 Martedì calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

PECHINO – Lo scorso 15 dicembre, a Washington, il presidente Hu Jintao aveva la platea ideale per ribadire il concetto. La Cina non vuole il protezionismo, il protezionismo può solo danneggiare tutti. Annuirono i capi di Stato e di governo, raccolti in un G20 emergenziale. E ancora, nuovi appelli a Barack Obama, ed editoriali preoccupati, perché la nuova amministrazione Usa non eriga barriere contro una Cina con l’export in calo. Però la vigorosa retorica antiprotezionista di Pechino non spazza via le incrostazioni che ne segnano il panorama economico.
La mano dello Stato, che orienta ancora in modo determinante i settori chiave dell’economia cinese, è di fatto una forma di protezionismo. Il sistema bancario regge all’urto della crisi finanziaria proprio perché è chiuso. E se il mercato delle telecomunicazioni – ad esempio – è stato aperto agli stranieri per quel che riguarda la tecnologia, restano gestiti dallo Stato tariffe e servizi.
Il protezionismo cinese c’è ma non si vede, sostengono i maligni, e si nasconde spesso negli intrichi della burocrazia. La nuova legge antitrust è entrata in vigore lo scorso primo agosto, celebrata legittimamente. Vieta alleanze e forme di concentrazione che alterino il mercato, intende prevenire l’abuso di posizione dominante: tuttavia, alla prova dei fatti il meccanismo potrebbe rivelarsi non del tutto trasparente in virtù dell’articolo 31, che prevede la clausola della «sicurezza nazionale» in materia di acquisizioni di aziende cinesi da parte di aziende straniere. Ove appunto l’investitore straniero interferisse con la «sicurezza nazionale», occorre un’autorizzazione speciale; idem per i settori industriali statali di interesse nazionale. La vaga «sicurezza nazionale» può rivelarsi una micidiale tagliola protezionistica.
Una delle prime aziende straniere a sottoporsi al vaglio delle nuove autorità antitrust è la Coca-Cola, per far suo il produttore di bevande Huiyuan, operazione da 2,3 miliardi di dollari.
Le dogane restano una strettoia micidiale, non è un caso che la resistenza di Pechino alla semplificazione delle procedure doganali sia stato uno dei fattori del fallimento, l’anno scorso, del Doha Round. Un anno fa la rivista cinese «Northern Economy » ha esaminato le importazioni automobilistiche come un caso di scuola: è vero che prima dell’ingresso di Pechino nel Wto (2001) i dazi erano spaventosi, 180-220% nel ’94 ad esempio, e che nel 2006 erano scesi al 25%, ma è altrettanto vero che – fra dazi, Iva e tasse al consumo – gli oneri di importazione arrivavano nel 2005 a quasi il 60%. Da allora sono stati compiuti altri interventi, ma il fatto che gli obblighi fiscali debbano essere onorati al porto di sbarco favorisce i grandi importatori che sono in grado di pagare le tasse in anticipo, prima di trovare i clienti.
L’osservatore malizioso può riscontrare una componente protezionista anche nella disponibilità di tempo della Cina, che può prendersi le pause che ritiene opportune quando ci sono da stipulare accordi commerciali. E ci sono poi coincidenze che sollevano sospetti, quasi accenni di protezionismo politico-diplomatico.
L’autunno scorso, nelle settimane di tensione con la presidenza francese della Ue per l’incontro tra Nicolas Sarkozy e il Dalai Lama, ispezioni doganali di routine rivelarono piccole irregolarità in alcuni prodotti europei. Uno per Paese: all’Italia, per dire, furono respinte bottiglie di grappa con metanolo lievissimamente oltre i parametri fissati dalla Cina. Tutto bloccato. Tutto risolto in scioltezza e senza drammi. Nessuno si sognò di parlare di boicottaggio. Però...
Marco del Corona