Antonio Rossitto, Panorama 29/1/2009, 29 gennaio 2009
GIUSTIZIERI PER CASO
Il telegiornale della sera annunciava l’approvazione alla Camera della legge sulla legittima difesa. Michelangelo ’Rizzi, 41 anni, rivenditore di trattori nel Veronese, allargò il sorriso. «Ci voleva» disse d’istinto alla moglie, accovacciata accanto a lui sul sofà. «Finalmente una legge che tutela i cittadini onesti». Qualche ora dopo avrebbe provato sulla sua pelle cosa significa uccidere un ladnmcolo: le notti insonni, la gogna mediatica, la paura di ritorsioni, il peso della giustizia. Eppure, dopo tre anni di angosce, Rizzi ne è certo: «Rifarci tutto». Díspiaciuto, non pentito.
Come Maurizio Boni, protagonista di un caso analogo, raccontato in un libro che uscirà a fine mese per le Edizioni di latta: Il rimorso di non ater rimono. Sensazione comune a molte persone scivolate dentro storie simili.
Per qualche giorno i loro volti appaiono sui giornali. Le loro gesta originano veementi dibattiti etici e giuridici: sono pistoleri o brava gente costretta a difendersi? Clamore pubblico che dura poco. Poi restano soli, a meditare tutta la vita su quei pochi e concitati momenti di lucida follia. Panoranw ha raccolto le confessioni, i tormenti e le ansie di cinque uomini come tanti diventati giustizieri per caso.
Casteinuovo del Garda (Verona), 26 gennaio 2006, ore 1.00: il commerciante Michelangelo Rizzi uccide un albanese. Il 28 ottobre 2008 viene condannato a 2 anni e 6 mesi.
«Prima lo Stato mi ha obbligato a difendermi, poi mi ha indagato, infine mi ha punito. E questa la cosa che trovo più assurda». Rizzi siede con il volto mesto nel suo soggiorno. E’ lo stesso posto da cui sparò al rapinatore che tentava di forzare una finestra: un clandestino albanese di 24 anni, trovato morto a 150 metri dalla villetta del commerciante.
«Era notte. Io e mia moglie abbiamo sentito dei rumori. Mi sono alzato per andare in salotto» ricorda Rizzi mentre si versa un bicchiere di vino. E’ alto, ben piazzato; ha i capelli corti e le basette lunghe. Indossa bomber nero da paracadutista, jeans e scarpe da ginnastica. «Dopo aver visto uno dei due ladri, sono tornato in camera da letto e ho preso dal cassetto la mia calibro 40. Ho sparato tre volte alla finestra e loro sono scappati. Allora sono corso in giardino e, mentre fuggivano, ho scaricato il caricatore: altri otto colpi. Ma volevo far rumore, non ucciderli».
«Colpi sovrabbondanti», i rapinatori stavano già desistendo, ha scritto il giudice nella sentenza di condanna a 2 anni e mezzo per eccesso colposo di legittima difesa. « Per uno come me avere la fedina sporca è terribile. Ora ho paura della giustizia». Ma questo è solo uno dei tanti assilli. La sua vita, quella notte, si è rovesciata: «Ero uno forte, sicuro di me. Improvvisamente tutto è diventato insormontabile: non ho lavorato per due anni, cosa che mi ha causato problemi economici. Non riuscivo a sorridere, né a vedere gli amici. Con mia moglie sono diventato anaffettivo: non ero più l’uomo che dava sicurezza in casa». Quando parla di lei, una bella ragazza spagnola, gli si inumidiscono gli occhi. « Se quella sera le fosse successo qualcosa, non mi sarei più guardato allo specchio. Per questo sono sicuro di aver preso la decisione giusta».
Da tre anni Rizzi non dorme più di qualche ora a notte: «C’è il rimorso, ma anche la paura di vendette. Lo Stato mi lascia ancora solo. E disarmato pure, perché le pistole le hanno sequestrate»
Ora ha ripreso a lavorare e annuncia la candidatura al consiglio comunale del suo paese. Vanta 18 anni di militanza nella Lega e una vecchia amicizia con il sindaco di Verona, Flavio Tosi, uno degli uomini simbolo del Carroccio. «Ripulirò le strade. I delinquenti devono temere la giustizia, non la brava gente. Voglio ribaltare la vigliacca consuetudine di accanirsi su chi lavora». E mentre lo dice lo sguardo dardeggia risoluto.
Caniparola di Fosdinovo (Massa Carrara), 9 marzo 1994, ore 20.30: !L negoziante Maurizio Boni uccide un giostraio. A lo ottobre 190 la Cassazione gli conferma la condanna a 4 anni e mezzo.
Chino sul bancone del negozio di ferramenta, fra un cliente e l’altro, per tre anni ha riempito dei quaderni, cercando di ricordare ogni particolare. A partire dalla sera di 15 anni fa che gli ha scombinato la vita, quando, armato di pistola, sparò alla testa di un giovane giostraio dopo un tentato furto a casa. Memorie raccolte in Il rimorso di non aver rimorso, libro che uscirà il 30 gennaio.
«Non volevo fare una caccia all’uomo» giura Boni, 60 anni, occhialini fumé e camicia a scacchi. «Non sono il Rambo di provincia descritto dai giomali, solitario e un po’ psicopatico: ho scritto perché tutti capiscano che sono finito per sbaglio in questa vicenda. Non voglio l’eterno marchio di Caino, ho tentato solo di difendere la mia famiglia».
Le indagini dei carabinieri hanno concluso che il malvivente è stato centrato da 96 metri: «Un incidente» sospira. «Io ho mirato in aria. Non so come quella pallottola abbia colpito il giostraio. Siamo stati molto sfortunati: sia lui sia io».
I giudici non gli hanno creduto, forse anche per il suo passato da direttore di un poligono. t stato condannato in primo grado a 9 anni e 6 mesi per omicidio volontario. La pena in seguito è stata praticamente dimezzata e l’accusa derubricata a omicidio colposo. Boni ha passato 9 mesi in carcere, poi ha beneficiato dell’articolo 21 e dell’affidamento ai servizi sociali. «Una condanna che non ho mai accettato» ammette. «Mi sono sentito offeso. Ero uno che diceva di buttare via la chiave con chi entra in galera. Ora la penso un po’ diversamente».
Il titolo del suo libro è eloquente: «Non ho rimorso. Penso di avere fatto la cosa giusta, non sono stato io a entrare in casa loro». Accanto a lui, moglie e figlia annuiscono. Ricordano tutti e tre le minacce ricevute dai parenti del ragazzo morto: «Citofonavano la notte, telefonavano ogni giorno. "Vi ammazziamo, siete dei bastardi" urlavano. Al processo ci hanno aggredito. Non mi vergogno a dirlo: aver ucciso uno zingaro, una persona con cui non condivido niente, mi ha alleggerito la coscienza».
Gli incubi però restano. «Quello più ricorrente è essere assalito da quattro giostrai. Cerco la pistola, ma non la trovo. E comincio a gridare, terrorizzato». Le finestre della sua bella villetta vicino Sarzana ora sono sbarrate da spesse grate.
«Un’altra sera in paese c’erano i fuochi d’artificio. Noi dormivamo, ma al primo botto ci siamo trovati tutti in soggiomo, a guardarci sgomenti».
Grezzana (Verona), 5 agosto 2005, ore 16.00: il gioielliere Sandro De Sitvestri uccide un ragazzo marocchino. E’ stato assolto il 28 settembre 2006.
Una pistola giocattolo, identica a quella che usano i carabinieri, conficcata nella spalla. La sua commessa immobilizzata a terra da un altro rapinatore. Un colpo grosso, in una gioielleria del Veronese piena di contanti e monili. Il titolare riesce per un attimo a divincolarsi: allunga la mano sul suo revolver e spara un colpo. Il ragazzo stramazza a terra.
De Silvestri è seduto nel retro dei suo negozio: 62 anni ben portati, fisico vigoroso, foto di gare sclistiche appese ai muri. «Ogni tanto rivedo la scena nella mia mente, si può accantonare, non dimenticare». Giacca di pelle, nuca rasata, bracciali e un grosso orologio ai polsi: il gioielliere ha un aspetto coriaceo e severo, mitigato da una pila di cd e di libri accantonati alle spalle, «Tengo tutta la storia in un angolo della mente: cerco di non farla diventare una tortura psicologica, ma mi ricordo sempre che un ragazzo è stato ucciso. Se l’è andata a cercare, però è morto comunque».
Il commerciante veronese racconta di non aver avuto momenti di scoramento. Ma la paura, quella sì. «Gioielliere, ti faremo fuori » scrive qualcuno sui muri di una piazza veronese. «Assassino» scarabocchiano davanti al suo negozio. E le telefonate: «Prima o poi ti faremo fuori» minacciano alla cornetta.
«Non ho mai sensi di colpa» assicura. «Non è stata una reazione sproporzionata: la vita della mia commessa era a rischio e non potevo fare altro. Ho continuato a vivere più serenamente che potevo». Si è sposato un anno dopo quell’angoscioso pomeriggio d’agosto.
Deserto D’Este (Padova), 16 febbraio 2004, ore 1.30: il pensionato Luciano Tuffanin ferisce un pregiudicato. E’ assolto il 7 marzo 2006.
«Vado a letto a mezzanotte, con la finestra aperta anche d’inverno. Cerco di rilassarmi, ma mi prende sempre l’ansia. Allora appoggio l’orecchio destro al cuscino e tendo l’altro, quello che funziona meglio. Sto così fino alle 6 del mattino, immobile. Voglio essere pronto a difendermi, non come quella volta. Ogni rumore è un tormento. Prendo sonno solo all’alba, per qualche ora. Il neurologo me l’ha detto: "Signor Toffanin, si metta l’anima in pace. Avrà la fissazione del ladro fin quando morirà».
L’ex impresario edile padovano, 69 anni, scruta la moglie, che vigila consolatoria. Quella notte è lei a trovarsi davanti un rapinatore che voleva rubare dei salumi dal magazzino. Toffanin, nella camera da letto al primo piano, prende uno dei suoi sei fucili, spara dalla finestra e lo ferisce a un braccio. Viene però assolto, non era nelle condizioni diprender ela mira, sostiene il giudice. Seduto in cucina, Toffanin tira fuori un culatello e comincia ad affettare. «Ho ancora un’inredibile cattiveria dentro. Se trona qualcuno, giuro che da qui non esce più» dice in dialetto veneto stretto. «Là dentro ho un capitale di salumi» aggiunge indicando il magazzino all’esterno. «Lavorare tanto per poi farsi fregare le cose dagli altri: le pare possibile? Gli insaccati che voleva rubare quel disgraziato erano venduti: mi avevano già dato i soldi». Pentito? «Sì, di non averlo ammazzato».
San Giuseppe Jato (Palermo), 5 dicembre 2005, ore 21:00: l’imprenditore Giuseppe Siviglia, sindaco del paese, ferisce un pregiudicato. Il 17 novembre 2007 viene condannato a 2 anni e mezzo.
Era uscito da uno dei cinema che gesisce a Palermo con l’incasso della giornata: 6.500 euro custoditi dentro una valigetta di pelle marrone. Poi aveva percorso in macchina i 8 chilometri che separano il capoluogo da San Giuseppe jato, il paese di cui è sindaco (di centrodestra) dal 2002, la cittadina in cui spadroneggiava Giovanni Brusca, uno dei più sanginari killer di mafia. Tra i malviventi lo seguono fino al garage. Lo derubano. Lui reagisce e spara, ferendone uno. Due anni dopo Siviglia viene condannato a 2 anni e mezzo: «Il pm aveva chiesto 5 mesi. Il giudice mi ha dato invece il massimo della pena, senza alcun beneficio. Mentre il mio rapinatore, pluripregiudicato, ha ottenuto il minimo. Un’assurdità che dimostra la poca professionalità di alcuni magistrati, che hanno convinzioni tanto contrastanti sull ostesso caso».
Siviglia, 51 anni. baffetti curati, assicura che voleva solo difendersi: «Sono amareggiato per quello che è successo. E ho dovuto subire pure l’onta della condanna. Ma la gente ha capito e mi ha rieletto. Ho preso più voti della prima volta. Questo mi ha fatto capie che devo continuare a camminare a testa alta».
Le sue abitudini non sono cambiate: «Non potevo permettermelo. Il giorno seguente mi sono messo una maschera e sono andato avanti. Non ho sensi di colpa nè pentimenti. Anche se un giudice ha detto il contrario, ho solo esercitato il mio diritto di legittima difesa».