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 2009  gennaio 29 Giovedì calendario

ENRICO RAVA LA MIA AMERICA TUTTA D’UN FIATO


Ennrico Rava ha ribaltato il suo destino di imprenditore nell’azienda di famiglia (ramo trasporti) un giorno di 50 anni fa, quando decise che non poteva più chiudersi nel bagno dell’ufficio per dormire (la notte suonava) e si lasciò alle spalle Mole e camion per vivere di solo jazz. Oggi è proprio Torino a festeggiare il suo mezzo secolo di carriera con un concerto di «all stars» il 31 gennaio all’Auditorium della Rai: con lui sul palco Michael Blake (sax tenore che sostituisce bhrk Turner), Stefano Bofiani (piano), Lury Grenadier (contrabbasso) e Paul Motian (batteria), la formazione con cui ha registrato a New York l’atteso cd in uscita il 23 gennaio.

Narra la leggenda che decise di suonare dopo aver ascoltato Miles Davis dal vivo.
Vero. Era il 1957 e Miles venne a Torino, al Nuovo. Rimasi folgorato dal suo suono e dal suo carisma: occupava il palcoscenico come Marlon Brando la scena. Ma non è stato il mio unico modello: ho amato moltissimo anche Chet Baker. Mi piaceva il suono scuro che usciva dalle loro trombe, cosi diverso dallo squillo quasi militaresco che conoscevo fino ad allora. Però quello che ha insegnato a tutti, e quindi anche a me, è stato Louis Armstrong: qualunque nota noi usiamo, qualunque improvvisazione azzardiamo, lui l’ha già fatta. Armstrong ha anticipato tutto, perfino il rap, basta ascoltare la sua versione di Big butter and egg man. Comunque a Torino non potevo combinare niente, per questo alla prima occasione me ne andai. Quell’occasione si chiamava Gato Barbieri. Ho seguito lui e il suo sax a Rorna e a Parigi.

Poi Londra con Steve Lacy, Uems Aires sempre con Barbieri. E la tappa più importante: New York.
Arrivai nel 1967 e ci rimasi 10 anni.
Era l’ultimo periodo del grande jazz e succedeva tutto lì, era come stare dentro un’enciciodedia: c’erano Thelonious Monk e Mles lbvis Archie Shepp e Dizzie Gillespie, John Coltrane, Sonny Rollins, Duke Ellington Li ho conosciuti tutti tranne Ellington: i Duca era inavvicinabile.

Si racconta che sia stato Miles a voler conoscere lei.
Una sera venne a darmi una «controllata» all’Unganos, allora tempio del jazzrock. Gli aveva parlato di me Teo Macero, che in quel momento era il nostro produttore comune. Colsi l’occasione per presentargli Gato, ma lui fu preso da un attacco di panico e sparì.

Com’era il mito di persona?
Un tipo a modo, educato, veniva da una famiglia nera altoborghese con villa in campagna e
cavalli. Quello del jazz, fatto di gente del ghetto come Charlie Parker, non era il suo ambiente. Così per difendersi dalle prese in giro si costruì quella maschera di duro che poi gli venne utile per tenere a distanza i fari: Davis è stato la prima star del jazz moderno.

Anche Chet Baker è stato un idolo delle folle.
Lui era diverso, molto più fragile e indifeso. Lho conosciuto bene in gioventù, a Torino, dove ha suonato spesso. Quando era in città dormiva dal suo batterista, Franco Mondini, e io andavo a trovarlo tutti i giorni. Gli chiedevo consigli e lo ascoltavo studiare. Era un essere speciale, un vincente in tutto: oltre che suonare come un dio giocava benissimo a carte, guidava come un pilota di formula uno e aveva il dono della scrittura: le pagine del suo diario, Come se avessi le ali, sono quelle di un autentico scrittore. Ma era un tossico perso e, pur essendo un uomo dolce e sensibile, per la roba poteva diventare tremendo. Che peccato: aveva doti pazzesche non solo come trombettista ma anche come cantante.

Come ha potuto un estimatore del lirismo di Chet Baker diventare un esponente di punta del freejazz?
Il jazz è evoluzione e il free è stato espressione dello spirito rivoluzionario degli anni Settanta. Per chi faceva jazz allora era quasi inevitabile esplorare, sperimentare. Il problema è che non tutti avevano la preparazione e la classe di un Ornette Coleman e su quel carro sono saliti autentici «pacchi » che hanno sfruttato in modo disonesto il clima politico e uno dei paradigmi del free: la mancanza di regole. Aggiungi l’ignoranza del pubblico e capisci come si arrivasse all’assurdo di impedire a Count Basie o a Chet Baker di suonare perché «servi della Cia». Poi la moda è passata a quel pubblico che fischiava e applaudiva per conformismo si è dileguato.

Oggi il jazz è nuovamente popolare. Come spiega il successo, in particolare, di tanti musicisti italiani?
Intanto sono bravi, molto preparati: io sono un autodidatta, Paolo Fresu e Stefano Bollani, Stefano Di Battista o Gianluca Petrella hanno studiato sodo. Certo, ci vuole anche il talento, e loro ce l’hanno. Ma hanno anche saputo travalicare il confine arrivando al pubblico pop, orfano di grandi irinovatori come i Beatles e quindi disposto a rivolgere l’orecchio altrove.

A proposito di grandi artisti, parliamo un po’ di Giovanni Alievi...
Prima che Uto Ughi alzasse il velo su di lui, nessuno aveva il coraggio di dire quello che era chiaro a tutti. Poi si sono aperte le cateratte, e a me non va di infierire: è come sparare sulla Croce rossa.

Chi sono i veri talenti oggi?
Il trombonista Petrella, uno tra i più importanti jazzisti degli ultimi vent’anni. E Bollani. Se facesse solo il musicista, non ci sarebbe nessuno a poter competere con lui. Invece si diverte a spalmare il suo talento su tutto: scrive libri, fa programmi radiofonici. Ma va bene anche così.

Lei parla spesso di «suono interiore»: che cos’è?
E’ l’identificazione con quello che fai. A volte saper fare le cose bene non va bene per niente. Il jazz è nato nelle strade, il suo fascino nasce anche dalla rozzezza e nel buon jazz c’è sempre qualcosa di sporco. Il suono interiore nasce da tutto questo e da qualcosa di soltanto tuo.