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 2009  gennaio 22 Giovedì calendario

LONDRA RIMPIANGE LE SUE FABBRICHE


Che cosa esporta l’Inghilterra? Bisogna fermarsi a ragionare prima di riuscire a ricordare tre prodotti inglesi che oggi abbiano successo nel mondo. L’associazione mentale fra l’Inghilterra e la City, ovvero la sovrapposizione fra uno Stato e la sua economia di punta (i servizi finanziari), annichilisce la memoria e confonde la storia. Divora il mito. La Mini? tedesca. La Jaguar? indiana. Le scarpe Church’s? Italiane. Le porcellane Wedgwood? Prossimamente americane. Simboli del made in Britain si sono stemperati in un ventennio di trasformazioni al ritmo di un solo mantra: seppellire la società industriale sotto l’opulenza garantita da quella dei servizi in un mondo globale.
Londra si lecca le ferite aperte da una crisi senza uguali e pensa ai danni prossimi venturi, scandagliando i guasti di un sistema squilibrato. Ora che i servizi, almeno quelli finanziari, boccheggiano, torna alla memoria il destino della gloriosa industria nazionale manifatturiera. Ha ragione, forse, l’Economist quando sostiene che la distinzione fra settori «è ormai solo un retaggio degli uffici di statistica. L’unica differenza che conta è fra lavori ad alto contenuto specialistico e non». Può anche darsi. Eppure, si esemplifica, a queste latitudini circolano troppi master in economia e molto pochi in ingegneria. Fra il 1970 e il 1995 la quota di oxfordiani che sceglievano di dedicarsi all’insegnamento è passata dal 10 al 3 per cento. S’è moltiplicato il numero di chi, invece, ha lasciato l’augusta educazione Oxbridge per darsi al diritto, alla finanza, alla consulenza.
«Per i giovani in questi anni - dicono con rammarico a Eef, l’associazione delle imprese manifatturiere britanniche - il credo è stata solo la City». Troppa carta e poco acciaio, si potrebbe continuare con estreme banalizzazioni. O meglio, il luccichio dell’oro è stato capace di dissolvere molte aspirazioni intellettuali, annichilire la creatività imprenditoriale, flettere anche i valori della morale. La realtà del dibattito che oggi attraversa l’Inghilterra è quella di un mondo squilibrato, dove l’industria manifatturiera è la Cenerentola di un pianeta accecato dagli artifici della finanza. Più che negli Usa, più che altrove nel mondo.
A scuotere il suo Paese, a costringerlo a un’autoanalisi dolorosa, è un signore che rifiuta interviste e luci della ribalta. Sir John Rose, Ceo di Rolls Royce (motori per aerei) ha fatto chiasso nella City con un lungo articolo pubblicato sul Financial Times molte settimane prima dell’esplosione del credit crunch. Si è ripetuto a novembre, con un intervento alla conferenza annuale della Confederazione dell’industria britannica (Cbi). Sir John rivendica per l’industria manifatturiera quel ruolo che la società dei servizi ha fagocitato.
«Il nostro errore - ha scritto il Ceo di Rolls Royce - è stato affidarsi all’errata convinzione che il Regno Unito avrebbe condotto il mondo sviluppato in qualche luogo chiamato società post-industriale. Il primo passo è ora smettere di credere che il settore manifatturiero sia una reliquia del passato. La nostra base industriale ci ha garantito grande influenza nel mondo. Cosa accade oggi se Cina o India devono aggiornare le loro infrastrutture? Parlano con Bombardier, Siemens, Alstom. L’idea che il manifatturiero non sia più meritevole in un’economia sviluppata è ancora più insostenibile se si guarda alla Germania o all’Italia del Nord».
Appassionato nella difesa di se stesso, del leader, cioè, di un’azienda di altissima qualità. Appassionato, soprattutto, nella difesa di un mondo che non tutti credono sia così in crisi. «Siamo i sesti produttori sul pianeta», precisa Charles Goodhart, esperto di mercati finanziari, alla London School of Economics. «Non solo - aggiunge Richard Lambert ex direttore del Financial Times e oggi direttore generale di Cbi, spesso accusato di aver difeso la terziarizzazione estrema dell’economia britannica - ma abbiamo settori di punta. Lei si domanda che cosa esportiamo? Farmaci, difesa, meccanica per aerei. La nostra industria manifatturiera occupa tre milioni di persone». Abbastanza, ma pur sempre un milione in meno di dodici anni fa e non solo per la delocalizzazione delle imprese low tech, né per l’emancipazione dei processi produttivi. Oggi il manifatturiero, nonostante i primati nel tasso di crescita degli ultimi anni, rappresenta poco più di un decimo dell’economia nazionale, appena più dei soli servizi finanziari (circa il 9%). E questo al netto della recessione che lo sta travolgendo. «Guardi l’industria automobilistica. modernissima - continua Lambert - e non accetto l’obiezione di chi la liquida perché non è inglese. Mini e Nissan sono storie di successo. Non torneremo ai campioni nazionali. Averli abbandonati è stato un grande vantaggio per l’economia del Paese».
Nessuno osa sventolare la bandiera di un autarchico nazionalismo, nemmeno Will Hutton, vice presidente della Work Foundation e commentatore molto critico dell’indirizzo assunto dal Paese nell’ultimo decennio: «Denunciare la scarsa attenzione allo sviluppo delle nostre imprese non significa battersi per la creazione e la tutela di campioni nazionali. stata una marcia a senso unico interamente diretta e concentrata sui servizi finanziari». Oggi solo un terzo delle imprese manifatturiere britanniche è di proprietà inglese. Epifenomeno, quando erano rose e fiori. Molto meno oggi quando il credit crunch trita tutto, rievoca i fantasmi del protezionismo, fa ripensare a scelte che si perdono nella stagione thatcheriana . In realtà per sir John il problema è un altro: «Il successo nasce dalla concentrazione di attività a valore aggiunto. Il Regno Unito ha poche società che hanno il proprio brand, che sono titolari della proprietà intellettuale, che hanno il controllo della distribuzione».
Basterà il credit crunch per invertire il corso di un’economia squilibrata o ha ragione ancora l’Economist, quando sostiene che è un discettare sbagliato essendo la divisione fra i settori produttivi appena più di una scorciatoia statistica? Carsten Sorensen, docente alla London School of Economics e studioso di innovazione, sta con il settimanale inglese: «Non va invertito nessun corso. Qualsiasi idea di tornare a modelli passati è semplicemente impossibile. L’errore peggiore, oggi, sarebbe penalizzare l’industria dei servizi per via della stretta. Bisognerebbe ricordarsi che il morbo della mucca pazza non ci ha reso tutti vegetariani. un’industria che va sviluppata e aggiornata e questo, per me, significa coinvolgere il consumatore nelle scelte del produttore».
Si disegna la mutazione del concetto stesso di manifatturiero, incatenato a una percezione antica. L’università di Cambridge scardina il luogo comune quando uno dei suoi maggiori ricercatori, Finbarr Livesey, sostiene che «oggi le imprese manifatturiere inventano, innovano, producono manager, e garantiscono servizi. Quella che un tempo era solo produzione oggi è produzione, ricerca, servizi». L’azienda globale, quindi, che con il brand e la proprietà intellettuale contribuisce a consolidare il ruolo del Paese che rappresenta. Come dice sir John, ma come osano pochi altri in Inghilterra. Meglio, osavano. Accadeva fino a ieri. Oggi è il Governo Brown che fa sue le ansie per liberare un mondo strangolato dalla crisi. Lo Stato torna vicino all’economia e non solo perché l’emergenza costringe Londra a nazionalizzare, di fatto, le banche. Lo teorizza, seppure con garbo, Peter Mandelson, ministro delle Attività produttive: «Ci vuole un nuovo attivismo industriale nel Governo per aiutare il mercato a produrre migliori risultati economici sul lungo periodo. Per sviluppare le capacità, le infrastrutture, l’innovazione necessaria a un’industria manifatturiera di primo livello in una nuova economia mista».
E tanto basta per salutare l’epoca di un infinito mondo di carta sbocciato nel Regno Unito oltre ogni previsione e volontà. Quello che verrà ha i connotati di una parete ripida, un muro di abitudini da superare nella consapevolezza che per andare avanti ci vuole il coraggio di guardarsi anche indietro.

LA RECESSIONE PESA SUL BILANCIO BRITANNICO-
Ogni giorno è un primato. I dati sfondano barriere che da anni resistevano facendo della Gran Bretagna l’isola felice che non c’è più di un Vecchio Continente che, nei paragoni di ieri, sembrava davvero vecchio. Alla fine di novembre la disoccupazione è arrivata alla soglia dei 2 milioni (1,92), il debito pubblico in dicembre ha raggiunto quota 697,5 miliardi di sterline, pari al 47,5% del Pil, in crescita di quasi il 4% se misurato con i dati di dodici mesi prima e il livello più alto da oltre trent’anni.
Il deficit di bilancio è ora di 50,3 miliardi di sterline e il trend è destinato ad accelerare con le misure straordinarie che il primo ministro Gordon Brown getta sul mercato per rilanciare il credito, frenare il crollo delle banche, rimettere in moto l’economia.
I dati rilasciati ieri dall’Ufficio nazionale di statistica indicano soprattutto la ricaduta del credit crunch sull’economia reale, con l’impennata del tasso di disoccupazione arrivato al 6,1% contro il 5,1% di dodici mesi fa. il dato peggiore dall’avvento al potere dei laburisti dieci anni fa e, oltrettutto, il valore assoluto non rende merito a un fenomeno a macchia di leopardo. Le aree più colpite sono la povera Irlanda del Nord e il ricco Sud dell’Inghilterra, dove i servizi, soprattutto quelli finanziari, hanno sofferto di più.
La fotografia emerge con nettezza se si guarda alle domande di indennità di disoccupazione. A Maghrafelt, piccolo centro dell’Ulster, sono aumentate del 168% rispetto a dodici mesi fa, ma anche a Londra sono cresciute del 14 per cento. I settori più colpiti sono quello edile, i trasporti, il retail.
A pagare il prezzo più alto sono le donne. Secondo un sondaggio dei sindacati le lavoratrici che hanno perso il posto è doppio rispetto agli uomini.
Debito, disoccupazione, un deficit che potrebbe arrivare nel 2009 fino all’8% del Pil sono numeri che vanno declinati con l’indebolimento della sterlina. La moneta ieri è scivolata ancora bruciando gran parte del terreno che aveva recuperato dal 1° gennaio, quando era arrivata ai mimini assoluti. La valuta inglese è stata scambiata sotto 0,93 contro l’euro, ma è contro il dollaro che ha perduto di più nel volgere di due giorni, arrivando a 1,3622 dollari per una sterlina.
L’inflazione, scesa al 3,1,% in dicembre, non fa più paura. Gli economisti si attendono quindi che la Banca d’Inghilterra torni a tagliare i tassi d’interesse, già ai minimi storici, portandoli intorno allo zero prima dell’estate. «La Monetary policy committee non ha ancora concluso la sua opera - ha detto ieri Jonathan Loynes, UK economist di Capital Economics - Ci aspettiamo che tagli di 50 punti base in febbraio e decida una riduzione ulteriore nel secondo trimestre, per passare poi al quantitative easing, ormai inevitabile».

SORRY, TROPPA FINANZA: RIPARTIREMO DALL’EURO-
Tina, diceva di sè Margaret Thatcher. Ovvero, «Non c’è alternativa» (There Is No Alternative) uno slogan che fischia nelle orecchie di molti, oggi, in Gran Bretagna, dove anche le trincee, oltre agli avamposti, di un’economia esplosiva sono travolti dalla crisi del credito.
Non c’è davvero alternativa, se non assistere allo sconcertante spettacolo di un Paese che ogni mattina annuncia al mondo di essere in caduta libera. Crolla tutto. Banche, case, sterlina, occupazione. Né basta consolarsi riconoscendo che il precipitare è relativo visti i vertici raggiunti negli anni passati: la percezione è quella di una verticale nell’abisso e la realtà è quella di un incipiente impoverimento collettivo. Il grafico lo disegna la Royal Bank of Scotland, gloria di una terra passata dall’avere, forse, la più alta quota di grandi banche d’Europa, alla consapevolezza che il credit crunch s’è divorato anche le ansie indipendentiste che in quelle banche leggevano la ricchezza nazionale. Rbs è di fatto statale e in un anno la curva della sua capitalizzazione è passata da 78 miliardi ai 5 di ieri. Trema Lloyds, traballa Barclays.
In quel grafico si rischia di leggere molto più della caduta di una banca o la metafora di una società scossa, ma la fine di un modello. Più che nel resto del mondo, più che negli Stati Uniti. Londra ha scommesso tutto sulla società dei servizi e sui servizi finanziari in particolare in un crescendo liberato dal Big Bang thatcheriano, che fu poi gestito da John Major e infine moltiplicato da Tony Blair e il suo New Labour. Un meccanismo che ha creato un’opulenza strabiliante capace di imbarazzare anche i nuovi ricchi russi emigrati qui a decine di migliaia con lo stesso spirito con cui d’inverno vanno a Sankt Moritz e d’estate in Costa Smeralda. E ora che quel meccanismo s’è rotto, trascina nel turbine uomini, simboli e idee che ci hanno affascinato e continuano ad affascinarci. Viene da domandarsi che fine ha fatto la Terza Via dell’ex premier Tony Blair sparito del tutto dalla scena pubblica neanche fosse sir Fred Goodwin, Fred the Shred (Fred il Distruttore) come i giornali chiamano oggi l’ex Ceo di Rbs. Tritata anche quella dalla catarsi che viene annunciata ogni mattina. I media martellano con un’insistenza che non conosce pietà, forse più del dovuto.
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Anche il dovuto in realtà è del tutto relativo. Prendete Gordon Brown. In ottobre era il salvatore del mondo, l’ingegnere di un’operazione capace di riportare ordine nel Regno di Elisabetta e nel pianeta. Tre mesi dopo ha dovuto fare un nuovo piano che la City ha salutato con un meno 67% del titolo Rbs. Solo perché mantiene una pudica foglia di fico sulla parola "nazionalizzazione" avallandola, di fatto, ma senza dirlo.
Brown non si può troppo biasimare: sta facendo il possibile, con un attivismo straordinario, incurante delle critiche di chi vede nella sua politica forti dosi di Old Labour. Ha portato al Governo anche l’europeista (all’inglese) Peter Mandelson che suo amico non è mai stato, dimostrando flessibilità e fantasia. Eppure non ce la fa a svoltare. Non è, né potrà mai essere, l’Obama d’Inghilterra. Né lui né nessun altro sulla scena politica britannica ha oggi una frazione del carisma e dell’aura di epocale novità del neo presidente americano. Una spinta che Londra non avrà.
Per l’Inghilterra si sta davvero chiudendo un ciclo, uno dei più lunghi della sua storia recente. Quel ciclo nel quale ha potuto muoversi con sistematica eccentricità su due piani. Restando con un piede in Europa e uno fuori dall’Europa, con un piede in America e uno fuori dall’America. Godendo e sfruttando con abilità il meglio di due mondi vicini, ma anche tanto lontani, grazie a una congiuntura storica che le ha permesso di cancellare dalla memoria le stagioni andate quando la Gran Bretagna era il "malato d’Europa".
Non si tornerà a questo, probabilmente. Ma Londra ha davanti a sé molte scelte, prima di tutto il suo approccio, ideale e non, all’Europa e all’euro. Può tergiversare un poco ancora. Ma, come direbbe Margaret Thatcher, «there is no alternative».