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 2009  gennaio 23 Venerdì calendario

UN TESTO ANCORA SFUOCATO


Chi sperava di ottenere maggiore chiarezza sui destini del federalismo italico, alla luce del disegno di legge delega approvato ieri al Senato, resterà parecchio deluso. Il testo emendato è migliorato in termini di principi e di procedure. Ma mantiene tutta la vaghezza originaria su molti altri fronti. E sembra difficile che i nodi fondamentali vengano sciolti finché non si raggiunga un chiaro equilibrio politico nella maggioranza, e tra maggioranza e opposizione, e non siano anche chiari gli effetti della crisi economica sulle finanze pubbliche.
Sul piano delle procedure, l’elemento di maggior novità è la creazione di una apposita Commissione parlamentare per l’esame dei decreti attuativi della legge delega che saranno presentati dal Governo, che resta comunque il decisore finale. Questo è un passo utile perché rafforza il ruolo del Parlamento e rende potenzialmente più condivisa la riforma, un buon auspicio per la sua sostenibilità nel tempo. Sono inoltre stati rafforzati i due altri organismi che devono guidare e controllare il processo di decentramento: la commissione tecnica, incaricata di organizzare la banca dati e di effettuare le stime sui nuovi sistemi di finanziamento, e la conferenza permanente. ora chiaro che la prima è un organismo tecnico che lavora a supporto della seconda, una conferenza intergovernativa che oltretutto è adesso tenuta a informare le Camere delle sue determinazioni, chiudendo così correttamente il cerchio sulla governance del nuovo sistema.
Sul piano dei principi, la maggiore novità positiva è che si fa qualche passo avanti nella indicazione dei nuovi tributi che dovrebbero sostenere il decentramento a livello degli enti locali. Così, per i Comuni si parla ora esplicitamente dell’imposizione immobiliare (che altro, se no?) e per le Province di un tributo sul trasporto su gomma. Un po’ vago, ma rispetto al vuoto assoluto della versione approvata dal Consiglio dei ministri, è già qualcosa.
Detto ciò, tutte le ambiguità del testo precedente restano inalterate. Si capisce per esempio ancora meno di prima dove passa per le Regioni la linea tra le funzioni fondamentali, dove la garanzia dello Stato per il finanziamento della spesa necessaria è assoluta, e le altre. La medesima distinzione introdotta per Comuni e Province, fissata ad hoc nell’80% delle spese principali per tutti, rischia nella sua rigidità e arbitrarietà di essere solo dannosa. Non è chiaro il grado di autonomia effettiva che le Regioni godranno sui tributi devoluti e la loro capacità di gestire direttamente i fondi perequativi che affluiscono agli altri enti locali nel loro territorio. E mentre rimangono tutte le invocazioni a ben operare per le autonomie, con l’insistenza sull’efficienza, i costi standard, i patti di convergenza, le sanzioni, il testo è ancora infarcito di rimandi ed eccezioni che vanno nella direzione opposta. Per esempio, si scopre ora che nel calcolo di fabbisogni e di costi standard si deve anche tener conto del rapporto esistente tra numero di dipendenti e numero di residenti dell’ente territoriale, che può diventare paradossalmente uno strumento per certificare come "efficiente" l’eccesso di personale esistente in alcune Regioni ed enti locali.
La legge delega rimanda dunque la palla al Governo. Da un punto di vista politico, il principale problema è che la tenuta della maggioranza richiederebbe un’attuazione della riforma che, almeno nelle prime fasi, lasciasse un po’ più di risorse agli enti territoriali del Nord, senza ridurre quelle che vanno al Sud. possibile che la predisposizione della manovra finanziaria per il 2009 avesse questa esigenza come retro-pensiero: la crisi economica rende ora tutto più difficile. Ma le esigenze del Paese sono che da questa riforma nasca un quadro più coordinato e coerente della finanza locale, che migliori davvero l’efficienza della spesa pubblica sul territorio, e che rafforzi l’autonomia locale in un quadro di accresciuta responsabilità. da questo punto di vista che le azioni del Governo verranno giudicate.

L’ORA DELL’INFLAZIONE EUROPEA-
Un modello unico per pubblico e privato, con contratti di durata triennale. Insieme ad incentivi per favorire lo sviluppo della contrattazione decentrata. Ed aumenti non più legati all’inflazione programmata, ma ad un indice previsionale, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. Con la possibilità di recuperare gli eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale.
Sono i principi chiave dell’intesa sulla riforma dei contratti firmata ieri sera a Palazzo Chigi tra Governo e parti sociali (con l’esclusione della Cgil) che segna il definitivo superamento dell’accordo del 23 luglio del 1993, dopo diversi tentativi andati a vuoto. L’intesa che si applica sia per il comparto privato che per quello pubblico, avrà carattere sperimentale. Se quindici anni fa la priorità era il contenimento dell’inflazione, questa volta l’obiettivo è il rilancio della crescita economica attraverso l’incremento della produttività, e insieme ad essa, delle retribuzioni. Il baricentro, quindi, si sposta sulla contrattazione di secondo livello che collega gli aumenti economici al raggiungimento di obiettivi di produttività.
L’impegno è di incrementare e rendere strutturali gli incentivi fiscali-contributivi che possono contribuire alla diffusione della contrattazione decentrata. Va ricordato che nella Finanziaria è già prevista la cedolare secca al 10% degli aumenti legati al premio di produttività. Nel settore pubblico l’incentivo fiscale-contributivo è concesso in modo graduale, «compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica», ai premi legati al raggiungimento di obiettivi di miglioramento della produttività e dei servizi offerti. Con accordi ad hoc le piccole imprese possono prevedere condizioni specifiche che meglio si adattano alle loro caratteristiche dimensionali. Per rendere effettiva la diffusione del secondo livello, inoltre, si potranno individuare in successivi accordi le soluzioni più idonee, anche adottando elementi economici di garanzia nei contratti nazionali (i metalmeccanici, ad esempio, hanno un meccanismo perequativo per garantire gli aumenti nelle aziende prive di contrattazione decentrata).
Se l’assetto della contrattazione è confermato su due livelli, gli aumenti del contratto nazionale sono legati all’andamento del nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato, elaborato da Eurostat), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, che sarà elaborato da un soggetto indipendente. Le parti verificheranno periodicamente se esistono scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale (sempre al netto dei prodotti energetici importati), in modo da garantite entro la vigenza contrattuale il recupero del differenziale. Anche nel comparto pubblico – dove saranno sempre i ministeri competenti, previa concertazione con i sindacati, a definire le risorse per gli incrementi salariali entro i limiti stabiliti dalla Finanziaria – sarà assunto come riferimento l’indice Ipca, al netto dei prodotti energetici importati. La verifica, in questo caso, sarà fatta alla scadenza del triennio contrattuale, e il recupero avverrà nel successivo triennio «tenendo conto dei reali andamenti delle retribuzioni di fatto nell’intero settore».
Un ruolo importante è affidato alla bilateralità che potrà gestire servizi integrativi di welfare, attraverso la contrattazione collettiva. Contro il rischio di un eccessivo prolungamento delle trattative per i rinnovi contrattali – che contribuisce alla perdita del potere d’acquisto – con intese specifiche verranno individuati i tempi per la presentazione della piattaforma sindacale e per l’avvio del negoziato: al rispetto dei tempi è condizionata l’attivazione di un meccanismo che garantisce una copertura economica dalla scadenza del contratto precedente. Durante il negoziato dovrà essere assicurata una tregua sindacale. prevista anche una clausola di opting-out, sul modello di quanto accade in Germania o in Italia in alcuni settori come la chimica: in situazioni di crisi, o per favorire lo sviluppo economico e occupazionale, le parti potranno accordarsi e derogare su singoli istituti economici o normativi dei contratti nazionali, anche in via sperimentale o temporanea. Novità anche per la rappresentanza: dovranno essere definite entro 3 mesi nuove regole in quei comparti che ancora non se le sono date, anche utilizzando la certificazione Inps dei dati di iscrizione al sindacato. Il documento, infine, contiene un impegno a ridurre l’alto numero di contratti nazionali.

CIG, TRA ESECUTIVO E REGIONI RESTA IL NODO DELLE RISORSE-
«Fuori i conti entro una settimana». Le Regioni tengono alta la guardia e danno i sette giorni al Governo: entro giovedì prossimo vogliono nero su bianco cifre, impegni e azioni concrete sugli ammortizzatori. Non sono bastate le due paginette del documento inviato la mattina dal Welfare sulle strategie «per la tutela attiva della disoccupazione». E tanto meno i governatori, convocati a Palazzo Chigi nel pomeriggio di ieri con le parti sociali, si sono lasciati incantare dalle sirene di Gianni Letta («ci vuole la partecipazione di tutti») e di Maurizio Sacconi («serve un patto di straordinaria collaborazione con le Regioni»). I governatori vogliono certezze, e le pretendono subito. Perché, ripetono in coro, «non c’è più tempo da perdere».
Almeno fino a controprova, la grande paura dei governatori resta intatta. Temono il saccheggio d’autorità degli 8 miliardi in due anni per gli ammortizzatori sociali dalle loro risorse per il Fse (Fondo sociale europeo). Per non dire del pericolo, nient’affatto scampato, della perdita di altre risorse legate ai Fas. Al Governo, che con Sacconi ha ribadito la volontà di estendere gli ammortizzatori ai parasubordinati, sono arrivati però altri messaggi dalle parti sociali. «Gli ammortizzatori sono la cura a una malattia, ma dobbiamo anche cercare di prevenire questa malattia dando un sostegno all’economia», ha sottolineato il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia. E mentre Raffaele Bonanni (Cisl) pur apprezzando l’estensione degli ammortizzatori ha chiesto risposte chiare sulle risorse, Luigi Angeletti (Uil) ha detto di preferire i contratti di solidarietà alla Cig.
La sensazione sempre più netta, insomma, è che ci sia ancora parecchio da lavorare. E che il confronto istituzionale difficilmente porterà a risposte definitive in soli sette giorni. Un timing, quello prospettato ieri dai governatori, sul quale il ministro Raffaele Fitto avrebbe risposto positivamente. Ma che per le Regioni è inderogabile: «Entro una settimana bisogna dare risposte ai lavoratori e agli investimenti», ha rilanciato Vasco Errani (Emilia Romagna), ricordando anche la necessità di nettizzare il patto di stabilità dai fondi Ue per gli investimenti.
Il documento consegnato dal Governo, d’altra parte, è soltanto un primo passo. Che pure, ha ricordato il lombardo Romano Colozzi, ha almeno tre pregi che vanno incontro ad altrettanti principi più volte ribaditi dalle Regioni: la necessità di una «leale collaborazione» (la lettura ottimistica: nessun esproprio di risorse), la volontà di avviare «azioni tempestive», la promessa di intese specifiche per ciascuna Regione combinando risorse di diversa provenienza e integrando le competenze (traduzione: le risorse non saranno prese da una sola parte).
Le linee guida «per l’occupabilità» presentate ieri dal Governo non mancano del resto di importanti spunti programmatici. A partire dalla «devoluzione alle Regioni e alle parti sociali del territorio della funzione di valutazione e negoziazione, in un quadro che rifiuta pericolosi automatismi, delle richieste di protezione per lavoratori ritenuti in esubero congiunturale o strutturale, sulla base di un accordo quadro e intese specifiche per ciascuna Regione utili a combinare risorse finanziarie di diversa provenienza e a integrare competenze e procedure». Alle Regioni si chiede di impegnarsi nella «ricerca di soluzioni» per «mantenere la più ampia base occupazionale distribuendo su molti lavoratori il minore monte di ore lavorate o riconducendo i lavoratori disoccupati in contesti produttivi del settore privato anche mediante forme di tirocinio formativo».
Sempre ieri è arrivato l’accordo sul Piano casa. Le Regioni avrebbero strappato l’impegno ad aumentare la dote finanziaria dei programmi di emergenza abitativa. E avrebbero anche ottenuto dal Governo l’obbligo dell’intesa in conferenza unificata sul piano casa, dopo che questa è stata recentemente cancellata da un emendamento al Dl Anticrisi, approvato nei giorni scorsi dalla Camera e ora all’esame di Palazzo Madama (che lo dovrebbe licenziare entro il 28 gennaio).

UN NEGOZIATO LUNGO DIECI ANNI
 durato almeno dieci anni il tentativo, sempre deluso, di trovare un nuovo assetto di contrattazione. L’accordo del 1993 infatti aveva lasciato l’amaro in bocca a molti. Il meccanismo messo a punto dal Governo Ciampi, ministro del Lavoro Gino Giugni, era stato determinante per contenere la dinamica del costo del lavoro e consentirci di entrare da protagonisti nell’area dell’euro. Ma presentava difetti, visibili già nei primi mesi di applicazione. Dato che lo stesso accordo del 1993 impegnava il Governo a studiare possibili modifiche, fu Romano Prodi a chiedere nel settembre del 1997 proprio a Giugni di proporre eventuali modifiche.
Una commissione, alla quale presero parte tra gli altri Massimo D’Antona e Marco Biagi, studiò per alcuni mesi la realtà della contrattazione e la relazione finale, a fine anno, indicò alcuni possibili interventi, anche di rilievo. Sulla base di queste indicazioni nel 1998 partì un negoziato tra le parti e il Governo, presidente del Consiglio Massimo D’Alema che cercò di far passare un’idea avanzata dalla Cisl di Sergio D’Antoni, quella della contrattazione territoriale.
Se ne parlò per un anno intero, ma senza arrivare a un risultato positivo. Prima la Confindustria di Giorgio Fossa, poi la Cgil di Sergio Cofferati dichiararono la loro indisponibilità e fu necessario ripiegare su un accordo che pomposamente fu chiamato Accordo di Natale, ma solo perché fu firmato l’antivigilia di quella festività, non perché fosse un regalo agli italiani. In realtà l’accordo, tranne pochi ritocchi, si limitò a confermare l’impianto contrattuale preesistente.
Il tentativo successivo venne nei primi anni 2000, con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi e Antonio D’Amato in Confindustria. Il Libro bianco di Marco Biagi aveva dato nuova forza all’idea di una revisione del diritto del lavoro e della contrattazione, ma anche questa volta il tentativo andò a vuoto, soprattutto perché si arenò sulle polemiche legate alla volontà di Governo e industriali di rivedere le norme garantiste dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Un accordo fu trovato, senza la firma della Cgil, con l’avallo della Cisl di Savino Pezzotta e la Uil di Luigi Angeletti: il Patto per l’Italia del 5 giugno 2002, ma senza provare a modificare gli assi portanti della contrattazione.
L’impegno a una revisione tornò forte solo nel 2004, quando Luca Cordero di Montezemolo divenne presidente di Confindustria. Già nel discorso di investitura lui dichiarò la volontà di trovare assieme al sindacato un accordo che desse nuova forza alla contrattazione, superando i contrasti e le difficoltà che nei quattro anni precedenti avevano caratterizzato i rapporti con le rappresentanze sindacali.
Anche questo tentativo però fu fonte di delusione. Il 14 luglio, una data che pure poteva essere evocativa, le parti si riunirono nella sede della Confindustria, e fu subito chiara la volontà di costruire un nuovo modello di contrattazione. Ma la riunione finì bruscamente, perché Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, non ritenne possibile continuare a discutere con gli industriali prima che Cgil, Cisl e Uil trovassero una posizione comune. Le tre confederazioni però non avviarono questa discussione al loro interno, semplicemente il problema fu accantonato. Né miglior risultato ebbe la presentazione da parte di Confindustria di una precisa proposta di intervento stilata il 22 settembre del 2005.
Solo il 13 febbraio del 2008 il sindacato riuscì a trovare un accordo sulle richieste da portare alla Confindustria. Sembrava che la situazione si fosse sbloccata, ma la Cgil non era ancora pronta e un incontro il 18 febbraio con la Confindustria finì in un nulla di fatto. Solo quando alla guida degli industriali è arrivata Emma Marcegaglia il dibattito ha ripreso quota, anche sulla spinta del nuovo Governo di Silvio Berlusconi. Il 10 giugno 2008 ci fu il primo incontro tra le parti sociali e lì fu presa la decisione di trovare un nuovo assetto contrattuale e farlo prima del 30 settembre. Da allora le cose sono andate velocemente. Il 12 settembre la Confindustria ha messo a punto un documento che, successivamente modificato, ha portato all’accordo.