Giacomo Amadori, Panorama, 29 gennaio 2009, 29 gennaio 2009
COSI’ UCCIDEVA IL TERRORISTA DEI SALOTTI BUONI
Il ministro brasiliano della Giustizia, Tarso Genro, esponente trotzkista del Partito dei lavoratori, gli ha concesso lo status di rifugiato per «il fondato timore di una persecuzione politica». Scrittori e intellettuali come Gabriel García Márquez, Fred Vargas, Daniel Pennac e Bernard-Henri Lévy hanno fatto appelli per lui. Persino le sorelle Bruni (compresa Carla, première dame di Francia) protestano la sua innocenza. Probabilmente perché nessuno di costoro ha sfogliato le carte processuali o le sentenze che condannano all’ergastolo per quattro omicidi Cesare Battisti, 54 anni, ex tutto, oggi giallista di fama e icona della gauche caviar parigina.
O forse perché hanno letto soltanto la «revisione» online del processo che viene propinata ai suoi fan sul sito militante Carmilla. Qui gli ultrà pro Battisti cercano di smontare, senza contraddittorio (a quello preferiscono la solidarietà acritica di certi circoli culturali sulla Senna), le prove dei pm che hanno condotto le istruttorie: da Pietro Forno ad Armando Spataro (che con Panorama definisce Battisti «un assassino puro»), a Corrado Carnevali. Il sito si accanisce soprattutto contro Pietro Mutti, 54 anni, il pentito che con la sua testimonianza ha permesso di ricostruire i misfatti dei Proletari armati per il comunismo, la formazione in cui militava Battisti.
Gli amici dei latitante lo definiscono «una figura spettrale». Si domandano: «Chissà se è ancora vivo, chissà dove abita e cosa fa, sotto la nuova identità accordatagli dalla legge sui pentiti». Errore: Mutti ha sempre lo stesso nome e ha accettato di raccontare a Panorama, per la prima volta, la sua verità fuori da un’aula di giustizia o dal carcere, dove ha trascorso otto anni. Manda in onda il filmino in super8 di quando uccideva con Battisti, che definisce «un opportunista».
I giudici della Corte d’assise di Milano, nella sentenza del 1988, spiegano che ritengono credibili le «chiamate in correità» di Mutti perché, per esempio, nel caso di un delitto si autoaccusa quando «a suo carico non esiste nulla di compromettente». E mentire, con il rischio di essere contraddetto da altri eventuali collaboratori, non gli conviene, visto che perderebbe «qualunque beneficio previsto dalla legge sui pentiti». Per questo i magistrati ritengono attendibili i resoconti di quando uccideva insieme con il compagno Cesare, in nome della giustizia proletaria.
Quella di Mutti, ex operaio dell’Alfa Sud, è una testimonianza pesante: ha fondato i Pac («L’idea mi è venuta ai tempi del militare, quando Lotta continua aveva lanciato l’inserto Proletari in divisa»), è stato in Prima linea, ha partecipato a 45 rapine, ha sparato alle gambe ed è l’esecutore di un omicidio: «Per errore in un conflitto a fuoco ho ucciso una guardia giurata. Quell’uomo non doveva morire. Continuo a pensare ai suoi figli» si rammarica Mutti.
Se Battisti, come narrano i suoi biografi, dopo gli anni del terrorismo ha scelto una «vita picaresca» (si è rifugiato anche a Puerto Escondido, ispirando uno dei personaggi dell’omonimo film di Gabriele Salvatores) ed è stato iniziato alla letteratura da Paco Ignacio Taibo II, a Mutti, finita la galera, è toccata un’esistenza normale, che tira avanti con lo stipendio da operaio di cooperativa: 1 .700 euro al mese con contributi ridotti. La sera fa da badante a un vecchio zio.
L’incontro avviene in un bar. Mutti parla con tono basso e pacato, ha un sorriso timido e irregolare. Il Battisti snello e abbronzato, immortalato in Brasile dai fotografi con la camicia viola aperta sul petto, è molto diverso dal suo grande accusatore: Mutti è minuto, sfoggia baffi e occhiali démodé, qualche callo sulle mani. Eppure, 33 anni fa i due uomini, all’epoca ragazzi, sono partiti insieme su una Simca 1.300 per andare a uccidere Antonio Santoro, 52 anni, maresciallo capo, comandante delle carceri di Udine. Con loro viaggiavano Enrica Migliorati, 20 anni, studentessa, e, alla guida, Claudio Lavazza, 21 anni, operaio. Quei quattro, insieme con gli insegnanti e ideologi veneti Arrigo Cavallina e Luigi Bergamin, erano il nucleo iniziale dei Pac. I fatti (in gran parte confermati da testimoni oculari) Mutti li ha raccontati al processo.
il 6 giugno 1978. Il loro quartier generale è una tenda da campeggio piantata vicino a Grado. Alle 7.40 del mattino Battisti, con barba posticcia, e Migliorati, vistosa parrucca rossa, si baciano nelle vicinanze della casa di Santoro. Fanno i fidanzatini per non insospettire la vittima. E su quelle effusioni scherzeranno in seguito con i compagni. Santoro, moglie e tre figli, esce dalla sua abitazione e passa accanto ai due giovani. Battisti gli spara alle spaue. Il Corriere della sera del giorno seguente pubblica: «Tre colpi di una vecchia Glisenti calibro 10,5, uno a vuoto, il secondo nella tempia destra, il terzo all’altezza del costato. Pallottole a bruciapelo».
Gli assassini scappano. La macchina sgomma via, Mutti saluta un ufficiale dell’Esercito, testimone del delitto, alzando il pugno chiuso. «Era un modo per dare un colore politico a quell’azione» rievoca Mutti, imbarazzato dal ricordo. «Su quell’omicidio eravamo tutti d’accordo: i Pac erano nati per occuparsi della questione carceraria». Le cronache riferiscono che la colpa di Santoro era stata di aver tardato a soccorrere Cavallina che si era rotto un braccio in prigione, giocando a pallone.
Nell’auto, dopo la morte di Santoro, c’era un’atmosfera adrenalinica. «Però nessuna scena di esultanza. Cesare era tranquillo, è sempre stato un freddo». Oltre che uomo d’azione. «Non era un intellettuale, ma un delinquente comune e così si dava da fare per meritare di restare con noi, il gruppo fondatore dei Pac, che in cambio gli garantivamo vitto, alloggio e documenti falsi».
Battisti era approdato a Milano per i numerosi problemi con la giustizia. Teppista di Cisterna Latina, prima di finire in carcere a Udine per rapina, da 17 a 20 anni era stato segnalato dalle caserme dei carabinieri di mezzo Lazio. Mutti fu il primo ad accogliere in casa propria questo Battisti randagio, nel quartiere milanese della Barona, dove i Pac erano nati, costola dell’Autonomia operaia: «Arrivava dal carcere, quindi aveva imparato delle regole, era ordinato e pulito».
Ma solitario. «Io e gli altri compagni uscivamo spesso, si andava a bere alla birreria Stalingrado, ma lui ci seguiva raramente, non voleva rischiare i controlli della polizia, che teneva sott’occhio il locale». Alle ragazze piaceva, però non a tutte: ”Ad alcune faceva paura”».
Questo Battisti appartato partecipava alle decisioni del gruppo? «A tutte. Era informato di ogni cosa. Devo essere sincero, gli unici che sono stati protagonisti di tutte le malefatte dei Pac siamo io e lui, i due operativi ». Un giorno però Mutti e altri compagni, tra cui Cavallina, in una riunione a casa di Bergamin obiettano che l’omicidio di due commercianti, colpevoli di essersi fatti giustizia da soli contro dei rapinatori, rischia di essere una cosa «troppo grossa», «sbagliata politicamente» ricorda Mutti. Battisti non ascolta e lascia i compagni spiegando che ormai la decisione è presa. Secondo le sentenze, il 16 febbraio 1979, lui e Diego Giacomini «abbattono» (così scrivono i giornali) il macellaio mestrino Lino Sabbadin. Battisti, però, in quell’occasione non spara. Lo farà due mesi dopo, quando ucciderà con cinque colpi calibro 357 magnum l’autista della Digos Andrea Campagna, davanti agli occhi del suocero.
«In questo caso la mia testimonianza è indiretta» precisa Mutti. «Dopo l’omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani ero latitante. Credo che di quell’episodio mi parlò lui stesso».
Nel 1979 la maggior parte dei militanti finisce in manette durante una retata. «Due anni dopo, nel 1981, organizzai la fuga di Battisti dal carcere di Frosinone e lui, che del prigioniero politico aveva poco, fece scappare con sé un giovane camorrista». Il futuro giallista amato dai francesi viene ospitato da alcuni amici incensurati («Di questo, però, non ho mai parlato» taglia corto Mutti).
Le strade dei due vecchi compagni si separano per sempre, l’ex operaio dell’Alfa Sud viene arrestato a Roma dopo una rapina in Toscana e si pente. Battisti annusa l’aria e fugge all’estero. Adesso, diventato il terrorista dei salotti buoni, nega di aver preso parte ai quattro delitti per cui è stato condannato, anzi liquida Mutti come «un boia la cui falsa testimonianza, resa in mia assenza, mi è costata l’ergastolo».
«Ma perché dovrei accusarlo ingiustamente? » replica il pentito. Per il fatto che Battisti era l’unico latitante, rispondono gli ultrà. «Non è vero, anche Lavazza, Bergarnin e, forse, Migliorati erano irreperibili quando ho iniziato a collaborare. Mi dispiace, ma io non potevo chiamare in causa chi non c’era per salvare lui. Cesare dovrebbe prendersi la responsabilità delle sue azioni, come ho fatto io».
«Contro Battisti non esiste niente di niente, solo le accuse di Mutti» affermano i sostenitori. Il fratello di Battisti, Domenico, dice a Panorama: «Quell’uomo si è salvato dall’ergastolo scaricando le responsabilità su mio fratello». Ci sono comunque altre testimonianze che confermano le parole di Mutti. Per esempio quelle della ex fidanzata e compagna di lotta di Battisti, Maria Cecilia B., oggi docente universitaria. In un interrogatorio dichiara: «Nella primavera del 1979 Battisti, nel dirmi l’effetto che faceva uccidere una persona (e ”in particolare vedere uscire il sangue da un uomo colpito”, si legge in una sentenza), fece riferimento all’omicidio Santoro, indicando se stesso come uno degli autori».
Contro Battisti ci sono anche le dichiarazioni della famiglia Fatone: Sante, pentito, la sorella Anna e la nipote Rita hanno confermato in molti punti le dichiarazioni di Mutti. Gli amici di Battisti li denigrano (Rita è definita «ai limiti dell’imbecillità»). La stessa tecnica di sempre. Che conferma lo stile dell’uomo» replicano a casa Fatone, dove le donne hanno paura. «Quando Anna e sua figlia, allora minorenne, andarono in Francia a cercare Sante latitante, Cesare le minacciò di morte. Era il peggiore di tutti».
Cavallina, nonostante la decisione di dissociarsi senza pentirsi, con Panorama sostiene: «Mutti su di me ha detto cose sostanzialmente vere, non vedo perché avrebbe dovuto accanirsi con Battisti. Quando sento che Cesare fa la vittima dall’altra parte del mondo, mi viene da sorridere».
Contro il fuggiasco, agli atti, ci sono pure le parole di Massimo T., ex militante dei Pac, ora stimato professionista. Anche lui ha un brutto ricordo: «Battisti non mi era particolarmente simpatico, lo trovavo troppo sicuro di sé con pochi scrupoli. Non aveva dubbi, gli mancava il senso della tragedia che permeava quegli anni. Un giorno mi chiesero di guidare l’auto che doveva portare il gruppo a fare una gambizzazione (quella dell’agenzia di custodia Arturo Nigro, ndr). Con me c’erano Battisti e Mutti. Dopo l’azione io ero sconvolto, loro non mi sembrava. E nostri più grande errore? Pensare di avere ragione: in quel momento avevamo già perso».
Adesso Battisti si definisce un capro espiatorio. Il fratello Domenico è perentorio: «Qualcuno vorrebbe chiudere i conti con gli anni di piombo incolpando piccoli delinquenti come Cesare. Meglio dare la colpa a loro che al Pci dei tempo che ci mandava in giro a fare cavolate». Gli ex compagni dei Pac ribattono: «Battisti una vittima? E’ una cosa difficile da digerire».
Giacomo Amadori