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 2009  gennaio 22 Giovedì calendario

TUTTA COLPA DELLO STATO TRAFFICONE


In un momento come quello attuale, segnato da una crisi economica che secondo molti presenterebbe notevoli paralleli con quella di ottanta anni fa, bene ha fatto la casa editrice Rubbettino a ripubblicare La Grande Depressione (Rubbettino, pp. 469, 14 euro) magistrale saggio di storia economica del 1963.

Murray Newton Rothbard (1926-1995) è ormai ben conosciuto nel nostro Paese: allievo diretto di Ludwig von Mises, fu il maggior economista e filosofo sociale di Scuola austriaca che la migrazione di questa tradizione in terra americana abbia prodotto. Il volume viene presentato da Lorenzo Infantino, che con Dario Antiseri e Raimondo Cubeddu, per non citare che i più noti, è un infaticabile diffusore del pensiero ”austriaco” in Italia.
Storia diversa

La Grande Depressione è uno snodo epocale nella storia del Novecento. Chiunque voglia dire la sua sulla crisi attuale deve in primo luogo dotarsi di una chiave di lettura precisa e realistica su ciò che accadde fra le due guerre. Se la cultura economica dominante la reputa ancora la prima vera disfatta del capitalismo del laissez-faire, ormai non sono pochi gli studi che confutano questa visione, mostrando come, al contrario, la crisi del 1929 sia stata il primo grande fallimento dell’intervento statale nella ”libera” economia.

Da quella crisi molti insegnamenti, e quasi tutti sbagliati, sono diventati patrimonio comune delle classi dirigenti politiche e dei loro consiglieri. In primo luogo: il capitalismo lasciato a se stesso non sarebbe in grado di produrre stabilmente ricchezza, per cui solo l’intervento pubblico e la sapiente mano dei burocrati illuminati possono addomesticare questa belva in grado di creare disoccupazione, ineguaglianza, miserie e crisi cicliche. Gli scritti del più influente economista del Novecento, John M. Keynes, dal 1929 in poi, non sono che una lunga riflessione su come rendere il capitalismo produttivo, stabile, in grado di creare posti di lavoro, a dispetto dei suoi vizi intrinseci. La risposta era invariabilmente una: l’intervento pubblico era la chiave per salvare il capitalismo da se stesso.

La spiegazione di Rothbard della ”Crisi del ”29” è di tutt’altra natura. Utilizzando la teoria austriaca del ciclo economico - un prodotto del pensiero assai sofisticato e che gode ancora oggi di ottima reputazione negli ambienti economici - ma soprattutto una messe di dati e ricerche, l’economista newyorkese mostra come la crisi, non fu il più grave episodio della storia del capitalismo, ma la prima grande crisi dell’intervento statale nell’economia. Se al crollo di ottobre del 1929 seguirono microcrolli che si propagarono all’economia ”reale”, creando poi una disoccupazione altissima (una media del 25% in America per dieci anni) ciò fu dovuto in prima battuta ad un errore iniziale: la stretta creditizia. Bene hanno fatto allora i governi occidentali negli ultimi mesi ad evitare questa trappola e a garantire il credito.

Rothbard dimostra come la bolla speculativa fosse stata creata dal governo federale con continue iniezioni di moneta, che si rivelarono il primo combustibile della crisi. Egli documenta poi come le politiche interventiste e improntate già alla pianificazione soft del Presidente Hoover (predecessore di Roosevelt) peggiorarono quella che avrebbe potuto essere una burrasca passeggera. Le pagine di questo volume sono essenziali per comprendere come il New Deal di Roosevelt non solo abbia rappresentato uno spettacolare fiasco, ma non sia stato affatto una novità per l’America. Il New Deal non era infatti altro che l’ampliamento delle misure di politica economica dell’amministrazione precedente. In breve, l’interventismo governativo non solo non curò la Depressione, ma fu la causa ultima della sua lunga durata.

Il saggio di Rothbard è fortemente controcorrente: a suo avviso non è dal ventre profondo del libero mercato che si generano le crisi che sconvolgono gli equilibri e le vite di milioni di individui, ma dalle politiche statali. Per lo Stato, infatti, ogni crisi è di stimolo per ampliare il proprio raggio d’azione, per insignorirsi di parti della sfera economica, per regolamentare ogni settore della vita associata. Estendendo la nota osservazione di Randolphe Bourne, si può affermare che le crisi, al pari delle guerre, sono la salute dello Stato. E forse proprio in questo momento, nel quale il dibattito quotidiano sembra ingessato sull’immarcescibile dialettica Stato / mercato, conviene tornare a riflettere su che cosa è veramente lo Stato.
Espropri fiscali

Lo Stato è una specifica risposta al problema dell’ordine politico che l’Europa ha elaborato nel corso dell’età moderna (grosso modo dal XVI secolo in poi) e poi donato al resto del mondo quale manufatto istituzionale ad altissimo grado di esportabilità. La ”soluzione” statale al problema politico è la concentrazione dei poteri e la ricerca dell’unità. La promessa era la minimizzazione dei conflitti all’interno dei propri confini e, con il consolidarsi del costituzionalismo liberale, anche il rispetto della vita e della proprietà degli individui. E tuttavia, ben pochi potrebbero negare che lo Stato, almeno dal Novecento, cresce a dismisura, fino a diventare il massimo violatore di questi stessi diritti. E allora, forse, prima di continuare a cercare la pagliuzza dei ”fallimenti del mercato” occorrerebbe vedere la trave di quelli dello Stato. Nel Novecento quasi 200 milioni di cittadini sono passati a miglior vita grazie alle attenzioni dei loro stessi governi. E questo senza contare le guerre (la migliore fonte su questo è Rudolph Rummel, Stati assassini, Rubbettino, 2005). La difesa della proprietà degli individui non ha avuto miglior sorte. Mentre l’esproprio delle ricchezze prodotte dai cittadini dagli albori della modernità ai primi del Novecento variava dal 3,5 all’8 per cento, nel corso degli ultimi 50 anni è passato in media dal 16 (1958) al 34 (1990) a quasi la metà odierna.