Stefano Lepri, La stampa 22/1/2009, 22 gennaio 2009
SARA’ FONDAMENTALE L’ACCORPAMENTO DEI MINI-COMUNI
Il Pd è diviso ma è orientato ad astenersi sul federalismo fiscale che sarà votato oggi dal Senato, mentre l’Udc è decisamente schierata per il no. Le perplessità dei Democratici sono dovute all’intervento di Giulio Tremonti, chiamato in causa sugli effetti finanziari della riforma. Il responsabile dell’Economia ha spiegato sono in gioco «un numero elevatissimo di variabili», che il federalismo «è un congegno ad alta complessità tecnica». Insomma, è difficile fare oggi delle «simulazioni» sugli effetti finanziari, che potranno essere fatte soltanto con i decreti attuativi. Tuttavia l’inquilino di via XX settembre ha assicurato che prima di scrivere questi decreti ci sarà una risposta alla domanda dell’opposizione. «Abbiamo già attivato una data room - ha precisato Tremonti - dove verranno raccolti ed elaborati i dati della Ragioneria dello Stato, dell’Agenzia delle entrate, dell’Istat e della Banca d’Italia». Servono dati omogenei e condivisi: non è possibile fornirli adesso e in ogni caso il calcolo sarà aperto al contributo delle forze politiche, delle Regioni e degli enti locali. Una cosa è certa: il federalismo fiscale non moltiplicherà i centri di spesa, i tributi e «non intensificherà» la crisi economica. E ancora: la riforma rispetterà l’unità e la solidarietà tra le aree del Paese.
L’intervento di Tremonti è stata una gelata per il Pd. «Tremonti non ha risposto alle nostre preoccupazioni», ha sottolineato la presidente dei senatori, Anna Finocchiaro. Ancora più dura l’Udc. «Le dichiarazioni del ministro Tremonti - dice il capogruppo D’Alia - confermano tutti i dubbi e le perplessità che abbiamo manifestato sul provvedimento». I Democratici decideranno oggi, in una riunione del gruppo parlamentare, quale sarà il loro voto finale. Ieri si sono astenuti su molti emendamenti ed è stato accolto dalla maggioranza quello presentato dal vicecapogruppo Pd Luigi Zanda, che istituisce una commissione bicamerale che dovrà valutare i contenuti dei decreti attuativi. Contro questo emendamento si è espresso duramente l’ex presidente del Senato Marcello Pera (Pdl), perché prevede che «la composizione della commissione deve in ogni momento rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari». Secondo Pera si tratta di un «emendamento Villari», cioè codifica quanto è accaduto per il caso della Vigilanza Rai. Se un parlamentare dovesse cambiare casacca la composizione della commissione potrebbe essere rivista o sciolta. Il rischio è che «sulla volontà del Parlamento prevalga il giudizio politico»: «Se esprimi un parere contrario al partito o al gruppo di appartenenza vieni espulso». Ma il vero problema del Pd sono i suoi sindaci del Nord, in prima fila Chiamparino e Cacciari, che hanno chiesto di votare contro il testo dopo l’intervento di Tremonti. Al contrario, sono molti i senatori del Nord che temono di lasciare la bandiera del federalismo in mano alla Lega e che quindi voglio astenersi. Con loro Franco Marini, ex presidente del Senato, il quale ha osservato che non sarebbe comprensibile un voto contrario: il governo ha accolto più di cento emendamenti proposti in commissione dal Pd. «Ci sono ancora due giorni per decidere - spiega la Finocchiaro - ma certamente l’assenza delle cifre è un fatto che pesa molto». La Finocchiaro ha comunque riconosciuto l’atteggiamento positivo della Lega: «Il metodo Calderoli è sicuramente apprezzabile e sarebbe bene replicarlo anche nelle altre riforme». Infatti Calderoli non si è risparmiato nelle trattative: ha annunciato che la prossima settimana in Consiglio dei ministri arriverà la Carta delle Autonomie e che a breve ci sarà anche una proposta del governo che, a partire dalla ”bozza Violante”, metterà mano alla riforma della Costituzione.
I rischi ci sono. In Francia e in Spagna, il decentramento fiscale ha fatto crescere le imposte locali più di quanto diminuissero quelle centrali. In Belgio, il paese che si è decentrato più di tutti per il crescente contrasto tra la comunità di lingua fiamminga e quella di lingua francese, la fase iniziale del federalismo ha molto contribuito al dissesto finanziario pre-Maastricht; solo dal 1989, con una legge che ha stabilito precise responsabilità di bilancio, i conti sono migliorati.
Questo insegnano all’Italia le esperienze degli altri paesi, così come le hanno studiate le organizzazioni internazionali. I tributi locali devono essere il più possibile pochi di numero e chiari; il Fondo monetario internazionale, ad esempio, nella sua ultima missione ha invitato a rimeditare sull’Ici (in tutti i paesi di lingua inglese, dagli Usa alla Nuova Zelanda, le risorse dei Comuni provengono quasi per intero dalle tasse sugli immobili, fino al massimo della Gran Bretagna, dove sono più che quadruple rispetto alle nostre).
Inoltre per funzionare bene il sistema dei poteri locali dovrebbe essere riformato. Giudizio comune è che le Province dovrebbero essere abolite; tre livelli di decentramento sono troppi e se ci deve essere un legame chiaro tra spese e tassazione, gli elettori hanno più difficoltà a giudicare le giunte provinciali perché non sanno bene quali ne siano le competenze. In uno studio dell’Ocse, scritto dall’economista esperta di Italia Alexandra Bibbee, si nota inoltre che la dimensione media dei nostri Comuni è troppo piccola per permettere una gestione efficiente dei servizi erogati. L’ideale sarebbe dimezzarne il numero.
Proprio perché conscio dei rischi, lo stesso Giulio Tremonti con tutta la sua amicizia per la Lega era stato molto prudente sul federalismo fiscale come ministro dal 2001 al 2004. Il parziale decentramento degli anni ”90, nota l’Ocse, aveva portato a un aumento dei dipendenti pubblici: salvo in un caso, quello dei servizi di collocamento, gli uffici statali «sono stati conservati, senza chiare responsabilità» mentre le Regioni per svolgere i compiti a loro trasferiti ne hanno creati di nuovi. Per questo motivo il Fmi incita a realizzare «una maggiore mobilità all’interno del pubblico impiego».
Nell’ultimo decennio, gli enti locali hanno mostrato una forte tendenza ad accrescere le spese correnti, ossia quelle meno utili: +5,3% in media all’anno, due punti in più rispetto all’amministrazione centrale. Per evitare che gli enti locali spendano troppo, occorre stabilire regole severe. In teoria, la Costituzione obbliga gli enti locali al pareggio di bilancio salvo gli investimenti; in pratica, ci sono molti modi di eludere la norma, come ritardare i pagamenti ai fornitori oppure scaricare i deficit sulle aziende municipalizzate.
Una quota consistente dei risparmi dovrebbe venire da minori trasferimenti alle regioni del Sud. Ma in prospettiva, nei prossimi anni, ha calcolato il centro studi indipendente Cerm, se non cambiano le attuali tendenze economiche e demografiche la debolezza del Sud aumenterà, con già nel 2012 1,4 persone non attive per ognuna che lavora, contro 0,8-0,9 al Nord.
E poi la Regione che più spreca è la Sicilia (23.000 dipendenti contro i 3.000 della Puglia) dove è forte una formazione politica, il Mpa, che è già la componente più inquieta dell’attuale maggioranza.