Stella Pende, Panorama, 22 gennaio 2009, 22 gennaio 2009
STELLA PENDE PER PANORAMA 22 GENNAIO 2009
Arabi israeliani contro Hamas. A Yarka, presso Haifa, la casa del lutto formicola di uomini dal turbante bianco come le nuvole. Ondeggiano in piedi e piangono davanti agli occhi di un uomo distrutto. il druso Samir Mouaddi, padre di Jouseph, 18 anni, arabo israeliano combattente nella milizia d’Israele, ucciso a Gaza. «Gli hanno detto: entra in quella casa, ci sono i terroristi di Hamas» racconta Samir. «Ma il carrista del tank nel buio ha sbagliato mira». Jouseph è uno degli almeno 943 morti (930 arabi e 13 israeliani) di questa guerra. Ma la sua è una morte diversa, perché il nome di Jouseph appare nella lista delle perdite israeliane. Storia da romanzo. Un ragazzo arabo israeliano che decide di fare il servizio militare con Israele ma viene ucciso a Gaza dal fuoco amico. « la disgrazia più surreale della guerra» racconta il cugino Obama. «Scopre una realtà che nessuno vuole vedere: quella degli arabi israeliani». Obama s’inchina davanti all’altarino con le foto di Jouseph: «Siamo arabi nel sangue e nel dolore, gli israeliani ci hanno dato cittadinanza e lavoro. Però, anche se regaliamo loro la vita, per loro saremo sempre eterni estranei. Così alla fine la nostra identità si è sgretolata. Siamo ”arbshmenet”, arabi di burro per la nostra gente, ma israeliani di serie C per il nostro stato. Lo sa? Jouseph non voleva combattere contro la nostra gente». Il padre Samir gli sputa addosso uno sguardo di fuoco: «Hamas non è la nostra gente! Sono terroristi che con i loro razzi condannano a morte il popolo palestinese. Gli israeliani invece ci aiutano a vivere». Obama guarda questo padre orfano del primogenito: «Gli israeliani ci aiutano a vivere e poi ci uccidono in guerra. Ricorda Marlon Brando in Apocalypse now? In quella grotta dice: ”Voi americani fate i vaccini ai bambini vietnamiti e poi bombardate le loro case”. Per noi è lo stesso». Arabi israeliani, palestinesi nelle vene, israeliani nel passaporto e nella vita. Sono parte integrante della storia d’Israele, ma per questa nazione restano sempre alieni. Quelli che David Grossman descrive in uno dei suoi libri più belli come «popolo degli invisibili». Eppure, sono il 20 per cento nel paese. Fanno anche mestieri importanti: scrittori, giornalisti, deputati, finanzieri. Come vivono allora la guerra furiosa del Medio Oriente questi doppi cittadini? Sostiene il settimanale americano Newsweek: «Gli arabi israeliani sono la risposta». Chissà, forse saranno proprio loro la forza mediatrice capace di risolvere questa mattanza. Resta una verità lacerante; in questi giorni il popolo degli arabi è in guerra con il suo stesso stato: Israele. « come farsi strappare la carne da una parte e dall’altra, poi rimane il tuo scheletro nudo. E il tuo scheletro è arabo» dice davanti all’inferno del confine di Gaza Marwa J’barah, oggi reporter di una tv canadese, ieri «una delle prime ragazze arabe della libertà», celebrata nel libro di Grossman. Un’ambulanza avanza nella polvere. Sciami di giornalisti le si attaccano intorno. il grande Truman Show della Striscia. Molti dei reporter qui sono arabi israeliani. Walid al-Omari di Al Jazeera, Tahiar Hizi e altri. Ahamad Maharer è l’unico a parlare: «Non ci faranno entrare fino alla fine. Così rimaniamo in platea mentre sul palco all’orizzonte ammazzano i nostri. Vedi, quando è scoppiata l’intifada dovevamo decidere: con la gente dei territori occupati o da soli? Ma noi viviamo dentro il tessuto israeliano e la lotta armata contro di loro sarebbe stata irreale». D’improvviso si commuove: «Oggi davanti ai bambini morti innocenti il nostro cuore è tornato a morire col popolo di Gaza». Un soldato israeliano ci fa segno di muoverci. «Il pericolo è che facciano di Hamas l’eroe e il salvatore. Proprio come è successo con Hezbollah in Libano. Comunque noi non permetteremo che i nostri figli vengano cresciuti da Hamas e violentati dal loro fondamentalismo». Il popolo arabo israeliano è attraversato da diversi destini. Quelli del ”48, li chiamano così, discendono dai 200 mila palestinesi sopravvissuti dopo la fondazione di Israele. Abitano a Nazareth, a Haifa e in tutta la Galilea. Hanno passaporto, carta d’identità e diritti israeliani. I cittadini di Gerusalemme est invece sono i senza casta della città (quelli del ”67) e non hanno altro diritto che il permesso di lavorare. In questi giorni la polizia israeliana vieta agli uomini sotto i 50 anni l’entrata alla moschee della spianata: la rabbia potrebbe accendersi. Allora giardini e muri si riempiono di preganti solitari che s’inchinano alla terra come uccelli affamati. Intorno il brulichio dei poliziotti. «Certo che sono arabo. Gli israeliani sono internazionali: arabi, spagnoli, russi ed etiopi» mi dice fiero Mohammed, milite a cavallo. «E voi perché parlate solo delle vittime palestinesi? I nostri bambini a Sderot resusciteranno forse? Perché non chiedete all’artista di Gaza Abu Salem, sospetto fan di Al Fatah, come i suoi fratelli di Hamas lo hanno torturato per due giorni interi?» dice accarezzando il suo destriero bianco. «Dice bene Tzipi Livni: dopo questa guerra tutti i palestinesi terroristi saranno trasferiti nel Sinai. Per la gioia del presidente egiziano Mubarak». Ipotesi molto realistica, anche per il più insigne dei palestinesi d’Israele: il deputato Ahmad Tibi, leader del partito Unità araba per il cambiamento e finora forza di mediazione eccellente fra governo israeliano e Autorità palestinese. Peccato che da poche ore la Knesset abbia votato l’esclusione di Tibi nelle future elezioni. « bastato parlare di guerra ingiusta per essere subito eletto portavoce di Hamas». Tibi in giovinezza è stato consulente di Yasser Arafat per Israele. Conosce bene virtù e peccati dei colleghi parlamentari: «Dopo la sconfitta del Libano avevano bisogno di una grande vittoria. Oggi vogliono creare una nuova geopolitica: Gaza sarà disfatta e poi arriveranno gli accordi, ma molti degli abitanti saranno esiliati». Tibi sta in una stanza con le finestre sbarrate. Si muove già come un fantasma. «Il risultato di questa guerra? Ehud Barak vuole fermarsi perché la sua popolarità elettorale è ormai alle stelle, Livni è innamorata del processo e non della pace». E Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, tornerà a Gaza sul carro israeliano?«Carognate! Parlo ogni giorno con lui. Tornerà nella Striscia solo con la riconciliazione. Ma troverà pochi palestinesi di quella terra a firmare la pace. I palestinesi israeliani invece ci saranno, eccome. E, guarda caso, oggi sono i registi di manifestazioni oceaniche. A Sakhnin, contro la guerra, c’erano 10 mila persone. Il doppio esatto che a Ramallah. A Baka molti di più. «I bambini di Gaza con i bambini di Sderot contro le bombe»: è il primo cartello sventolato da due piccole di 10 anni in corteo. Mentre Sanaa Abu Asbah-Watad, imprenditrice, ostenta il manifesto con la faccia di Olmert Belzebù: «Ehud vuole la guerra fino all’ultimo morto: così rimandano le elezioni e lui farà il primo ministro fino all’estate». I bambini cantano. Una donna parla da sola al cielo. Vicino un uomo bellissimo: «Come palestinese d’Israele mi sento una statua di ghiaccio che si scioglie al sole». Mohamad Bakri, attore celebre e regista del premiato film Jenin Jenin. Dentro le mille kefia che svolazzano, ecco un’allucinazione. No, è tutto vero. Una signora con frezza platino e pantaloni da amazzone riprende Bernard-Henri Lévy che, tutto liscio, pare scappato da una copertina di Vanity Fair. Il filosofo interroga un barbuto: «Sei cittadino israeliano. Perché manifesti contro il tuo stato?». E l’altro: «In Francia proibireste ai vostri cittadini di manifestare contro una terribile guerra francese?». In fondo alla piazza il banchetto dell’organizzazione Physicians human rights raccoglie fondi per mandare aiuto agli ospedali della Striscia. «Dobbiamo raggiungere i 700 mila dollari» mi spiega il dottore Ahmad Iraqi e aggiunge in confidenza che la somma maggiore, ben 180 mila, è arrivata proprio da un gruppo di arabi israeliani. Baka è divisa in due dal muro. A Baka est c’è una piccola enclave di agenzie di trasporto. Tutti qui hanno doppia nazionalità. «I media giudicano sempre gli estremi e gli estremisti, sia da parte araba che israeliana» dice George Abdallah, giovane imprenditore. «La gente qualunque e inascoltata come noi invece è neutrale. Potremmo dire che siamo noi in questa guerra l’opinione civile. Davanti a questa mattanza odiamo le bombe israeliane come i razzi di Hamas. E come palestinesi israeliani chiediamo disperatamente la pace».