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 2009  gennaio 22 Giovedì calendario

PAOLA CICCIOLI PER PANORAMA 22 GENNAIO 2009 E

l’immigrato diventa il capo. Le aziende create da cittadini stranieri sono oltre 165 mila in tutta Italia. E crescono rapidamente nonostante gli ostacoli burocratici e le difficoltà di accesso al credito.
 un nuovo boom e ne sono artefici gli stranieri che vogliono portare fino in fondo la sfida con se stessi: iniziata quando hanno lasciato il proprio paese, proseguita accettando nel nostro impieghi inferiori alle loro capacità e aspettative. Coronata poi con il salto verso un’attività produttiva o commerciale in proprio. Sono gli immigratImprenditori, 165.114 in tutta Italia a giugno 2008, oggetto di un volume preparato dalla Fondazione Ethnoland, in collaborazione con i redattori dell’annuale dossier statistico Caritas-Migrantes. Che si presenta come la prima fotografia organica di una realtà che, a detta dei curatori, ha in sé numeri e potenzialità per far rivivere all’Italia quanto avvenne al Nord tra gli anni Sessanta e Settanta con la nascita di piccole imprese messe in piedi dagli immigrati che parlavano i dialetti di Sicilia, Calabria e Puglia. Oggi i nuovi padroncini provengono principalmente da Marocco, Romania e Cina. E, a differenza di quanto accaduto in passato con l’immigrazione interna, negli ultimi 10 anni hanno aperto le loro attività non soltanto in Lombardia o in Emilia-Romagna, ma anche in Lazio, Piemonte, Toscana o Veneto. Cantieri e negozi con titolari stranieri sono disseminati in tutta la Penisola, tanto che, per esempio, la Sardegna viene indicata come un caso virtuoso «per avere creato un clima adatto alla diffusione dell’imprenditoria, sostenendo l’abilità di alcune collettività», come all’inizio quelle marocchina e senegalese, quindi quella cinese. «Anche in Sicilia e Calabria i tassi di imprenditorialità degli immigrati uguagliano o superano quelli delle regioni del Nord». Vi sono 12 province nelle quali, in proporzione, sono addirittura più gli stranieri degli italiani a fare impresa. Succede a Cagliari, Catanzaro, Prato, Agrigento, Massa Carrara, Varese, La Spezia, Pistoia, Milano, Cremona, Lodi e Torino. La scelta di porre al centro della riflessione economica e politica «questi soggetti nuovi e dinamici che costituiscono una marcia in più» per la società italiana è di Otto Bitjoka, camerunense con lauree in filosofia ed economia che, dalla sede milanese della sua Fondazione Ethnoland, ha intrecciato una collaborazione con Franco Pittau, anima del dossier Caritas-Migrantes, la mappa in continuo movimento sui flussi e gli apporti degli stranieri in Italia. Proprio Pittau analizza il ritmo crescente seguito dall’imprenditorialità straniera che, di fatto, inizia con la legge 40 del 1998 e la relativa liberalizzazione dell’accesso degli immigrati al lavoro autonomo. Occorre orientarsi nella messe di cifre che il volume presenta. Secondo l’Istat, i cittadini stranieri residenti in Italia erano 3,5 milioni all’inizio del 2008, mentre per il dossier statistico Caritas-Migrantes i soggiornanti complessivi si attestano sui 4 milioni, con un’incidenza di oltre il 6 per cento sulla popolazione complessiva. Mette in guardia Pittau: «I 165.114 imprenditori con nazionalità straniere censiti nel 2008 sembrerebbero pochi rispetto alla realtà imprenditoriale complessiva nel Paese, che si compone di 6.133.429 imprese registrate, delle quali 5.169.026 attive». L’incidenza sul totale delle imprese con titolari stranieri si aggira tra il 2,7 e il 3,2 per cento e, in sintesi, le aziende degli immigrati sono in media una ogni 35. Viene in primo luogo sottolineato che la burocrazia, anziché spianare la strada, finisce con lo scoraggiare chi voglia mettersi in proprio. Oltre alle difficoltà di accedere al credito, ci sono almeno 50 passaggi burocratici da superare per aprire un’impresa. Anche per questo non sono più di 1.000 all’anno coloro che arrivano in Italia con il fermo proposito di aprire un’attività, magari forti di una precedente esperienza in patria. Nonostante questo, la tendenza è in continua crescita. Rispetto al 2003, quando le aziende in mano agli stranieri erano 56.421, il loro numero è triplicato. L’85 per cento delle nuove imprese risale a dopo il 2000 e il ritmo è di 20 mila nuove attività all’anno. Otto Bitjoka si dice convinto che, con accorte «politiche di incentivazione, così come è stato fatto per i giovani e le donne, potranno essere create altre 200 mila aziende. Con un indotto occupazionale che potrà arrivare a superare il milione di occupati fra titolari di impresa, altre figure societarie e dipendenti. E concorrere a temperare gli effetti negativi della crisi in corso». Senza risparmiarsi e facendosi aiutare dai membri della famiglia e da collaboratori della propria nazionalità (a volte ricorrendo purtroppo anche al lavoro nero e irregolare), questi immigrati contribuiscono, secondo stime, all’11 per cento del prodotto interno lordo. «Nelle imprese condotte da stranieri la figura del titolare funge da perno ma non è la sola» scrive Pittau. Vi sono anche i soci (52.715) e le altre figure societarie (85.990), per cui nel complesso si arriva già a circa 300 mila persone». Non esistono dati statistici sul numero dei dipendenti occupati presso le aziende con titolari stranieri ma, secondo le stime, attualmente le 64.549 aziende del settore edile occupano per esempio più di 100 mila persone, e altrettanto può dirsi per i negozi (in cui il titolare è affiancato da un commesso), per i ristoranti (con i loro camerieri), per le ditte di trasporti o le imprese di pulizia. «Arriviamo così a ipotizzare che nell’area del lavoro autonomo siano coinvolti a vario titolo circa mezzo milione di immigrati, cioè più di un sesto della popolazione immigrata attiva» afferma ancora Pittau. E Otto Bitjoka guarda avanti: «Nell’immediato futuro quello a cui bisogna pensare per sviluppare e valorizzare l’imprenditoria straniera è la creazione di una struttura finanziaria specializzata, sul modello di Migrant banking o Bank of America ai suoi esordi». Per la valorizzazione delle potenzialità inespresse di chi si sente in grado di fare impresa, perché non vengano mortificate le potenzialità in campo.