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 2009  gennaio 14 Mercoledì calendario

«Il problema non è se pubblichiamo o no le foto delle distruzioni che provochiamo a Gaza ma la reazione della gente

«Il problema non è se pubblichiamo o no le foto delle distruzioni che provochiamo a Gaza ma la reazione della gente. Da voi si indigna, da noi gioisce». Quello che ha reso Nahum Barnea la penna più famosa d’Israele è il suo modo di affrontare le cose con realismo. Come 14 anni fa, quando suo figlio fu ucciso in un attentato e lui al funerale perdonò l’assassino, considerandoli entrambi vittime della stessa tragedia. La sua riflessione sulle foto della disperazione di Gaza non è che la constatazione dei limiti della stampa israeliana, spesso costretta a rappresentare la civiltà di un buon giornalismo in mezzo agli istinti che una guerra solleva. Perché di foto dalla parte di Gaza e di racconti degli effetti dei bombardamenti sui civili, ce ne sono pochi in Israele. scarsa la percezione dell’altro: di là c’è solo Hamas e non anche una popolazione civile. «In realtà è sempre così: stampa e opinione pubblica prima di tutto si uniscono sotto la bandiera, quando scoppia una guerra», spiega Yizhar Be’er, direttore esecutivo di Keshev, il Centro per la protezione della democrazia in Israele che analizza il comportamento della stampa. Nel 2005, quando Israele lasciò Gaza, Keshev aveva rilevato che i giornali erano pieni di titoli sul destino degli 8.500 coloni ebrei ma avevano ignorato l’esistenza di un milione e mezzo di palestinesi, testimoni interessati ma muti di quegli avvenimenti. «Sui giornali c’è una totale giustificazione delle ragioni dell’azione israeliana», continua Be’er. «Quello che oggi è diverso nel conflitto di Gaza è che alla terza settimana il consenso continua ad essere forte. Se guarda Yedioth Ahronoth, il giornale più importante, troverà un tono molto militaristico di sostegno alla guerra e quasi nulla sulle vittime e le sofferenze dall’altra parte. Sui giornali c’è un intenso dibattito sul comportamento della classe dirigente politica, su come uscire dal conflitto e sulle implicazioni sulle prossime elezioni. Ma quando si va sul piano militare c’è una specie di black out. Anche i nostri corrispondenti di guerra più famosi hanno poche notizie». Dovrebbe fare sensazione l’editore di Maariv che scrive sul suo giornale contro un suo commentatore giudicato troppo di sinistra. Ma non in Israele: durante la seconda Intifada Amos Schoken, editore liberal di Haaretz, criticò il suo direttore per essere stato favorevole al pugno di ferro dei militari nei Territori palestinesi. Di solito, come si dice, il dibattito è intenso perché i lettori sono tanti e leggono con attenzione. In Italia 58 milioni di abitanti comprano circa 5 milioni di giornali al giorno; in Israele sono 7 milioni e solo i tre giornali più importanti - Yedioth Ahronoth, Maariv e Haaretz - vendono un milione di copie. Poi ci sono i giornali minori; quelli degli arabi d’Israele, il 20% della popolazione; e degli immigrati russi, che hanno sviluppato un’industria editoriale in cirillico. «Sto scrivendo la risposta ai lettori che mi accusano di essere un sostenitore di Hamas», dice Nahum Barnea, il primo giornalista di Yedioth Ahronoth, il primo giornale israeliano. «Non è vero che ignoriamo ciò che sta accadendo dall’altra parte. Sui giornali ci sono almeno sei o sette commenti di critica. Dopo il primo giorno di guerra, su Haaretz Amira Hass aveva scritto di essere contenta che i suoi genitori (scampati ai lager nazisti, ndr) non fossero più vivi per vedere i massacri di Gaza. E tutte le sere qui, nella mia redazione, si apre una discussione fra chi dice che in prima pagina dovremmo occuparci di più della popolazione civile a Gaza e chi pensa che non dovremmo farlo». Prevalgono i secondi. Non solo a causa del patriottismo in tempo di guerra, ma anche perché un giornale deve vendere copie e, come spiegava Yizhar Be’er, ora i lettori sono a favore della guerra. Ancora più evidente è il taglio sui servizi delle tv commerciali. «La gente sta guardando il conflitto attraverso una lente ristretta: vuole vincere e non vuole che i media facciano troppe domande», aggiunge Barnea. I militari stanno contribuendo a mantenere alto il consenso impedendo l’accesso della stampa al fronte. Non solo ai giornalisti stranieri viene impedito di entrare a Gaza: neanche gli israeliani possono seguire come in passato le loro truppe combattenti. «Lo feci nella guerra in Libano del 2006 e tornai dal fronte con una cattiva impressione, che riportai sul giornale», ricorda Barnea. «I comandanti di plotone avevano i nostri numeri e ci telefonavano dal campo di battaglia per lamentarsi. A Gaza lo Stato Maggiore ha impedito che questo si ripetesse. Questa volta è stata bloccata ogni copertura giornalistica. La larga maggioranza dei lettori vuole che Hamas sia smantellato e non se ne lamenta». Le uniche informazioni sono quelle che passa l’esercito: mirate, spesso propaganda, a volte bugie come nel caso del massacro alla scuola dell’Unrwa: dopo aver detto che Hamas aveva sparato da lì, l’esercito ha dovuto ammettere che era stato un errore di tiro della sua artiglieria. «Sappiamo che per ridurre al massimo le perdite il comportamento delle truppe con i civili di Gaza è brutale», ammette Nahum Barnea. «In Israele il vero dibattito sulla guerra non è ancora incominciato. Non ora, ma poi ci sarà. E se l’esercito ha commesso dei crimini, la stampa non lo nasconderà».