Silvia Nucini, Vanity Fair 21 gennaio 2009, 21 gennaio 2009
SE LA POLIZIA HA PAURA
SILVIA NUCINI PER VANITY FAIR DEL 21 GENNAIO 2009
Ogni pezzo di Giacomo Gensini parla di lui come un curriculum vitae: le spalle da giocatore di football americano («Serie A, nella Lazio, fino a quando mi sono rotto il tendine d’Achille»), il sorriso accattivante da istruttore sporti¬vo dei villaggi Valtur («Insegnavo canoa») e lo sguardo sfinito del poliziotto: «Prima come militare e poi di carriera, per due anni». Alla sua ultima professione, quella di scrittore, si può probabilmente imputare il reticolo di rughe intorno agli occhi, quelle che vengono a chi li strizza spesso, per mettere a fuoco la realtà. Genova sembrava d’oro e d’argento (Mondadori, in libreria dal 13 gennaio) è il suo vero romanzo d’esordio «Prima ce n’è stato un altro, una cosa minuscola» e si ritrova a fare questa intervista come uno che non ci crede fino in fondo: « andata come nessuno pensa possa andare: ho mandato il manoscritto alla Mondadori e, dopo dieci giorni, mi hanno chiamato».
Genova fa venire in mente tante cose ma, dal 2001, il G8 sopra a tutte. E di questo parla la sua storia, raccontata dal punto di vista di «quelli che subito sono passati per cattivi»: i poliziotti. Gensini, quel luglio, poliziotto non lo era più, ma aveva tre amici tra gli ottanta uomini del nucleo speciale antisommossa, i celerini del «Settimo», quelli dell’irruzione nella scuola Diaz. Ed è ascoltando i loro racconti che ha costruito «una storia senza via d’uscita, perché certe volte il destino non ti lascia alternative», che ha come protagonista Dario Foschi, «quello che sarei stato io se fossi finito in quel casino». Quel casino che «non è facile giudicare: le linee nette hanno sempre intorno aloni grigi. E la stampa, che ha esultato delle condanne di quelli del Settimo, come se avessero elaborato loro il piano strategico di gestione dell’ordine pubblico a Genova, è ipocrita e si rifiuta di vedere le cose come stanno. Diventa mostro quello più facile da colpire». Per spiegarmi come stanno le cose, dice, «prima di tutto bisogna capire chi è un poliziotto».
Chi è un poliziotto?
«Non raccontiamocela: perché uno fa il poliziotto e un altro lavora in banca? Ci sono uomini aggressivi e uomini che non lo sono. Persone che vogliono una vita tranquilla e altre che hanno bisogno di adrenalina. La società utilizza i suoi elementi in base alla loro indole e alle loro caratteristiche. Per entrare in polizia devi superare un test: i remissivi e i passivi vengono scartati. Se hai un ladro che sta scassinando la porta di casa tua, chiami la polizia e non vuoi che arrivino tre agenti che si spaventano e scappano, no? Se metti dieci lupi contro un muro, che cosa vuoi che fac¬ciano, se li attacchi? Che belino? Se addestri per quattro mesi ottanta uomini caricandoli come delle molle e una notte li mandi in una scuola dicendo che ci sono dentro dei black bloc armati, che cosa ti aspetti che succeda? Pensi se ci andava il Col Moschin (il reggimento d’assalto dei paracadutisti, ndr) a sgomberare la Diaz: ci sarebbero stati trenta morti, probabilmente, perché i soldati, anche quelli che vogliamo chiamare soldati di pace, uccidono le persone. La Celere, nella polizia, è il reparto degli sfigati».
Perché hanno mandato i celerini nella Diaz?
«Bella domanda: i celerini non sparano mai. Se i celerini sparassero, ci sarebbe un morto a settimana negli stadi, la domenica. Non sono abituati agli scontri
a fuoco, sono preposti a ”caricare per conquistare lo spazio” e, siccome gli hanno detto che
c’erano armi, là dentro, sono entrati impauriti. Se ci sono persone armate mandi i Noes, mandi lo Sco (Servizio centrale operativo, ndr). Ma quelli dei Noes e dello Sco non sono poliziotti normali, non sono sacrificabili. I celerini, invece... Che problema è?».
Lei parla, e scrive, come se non ci fosse stata alternativa alla violenza di quei giorni.
«Le alternative, spesso, sono più teoriche che reali. Possiamo raccontarci che ogni poliziotto avrebbe potuto mettere giù il manganello e dire basta. Allo stesso modo i giornalisti potrebbero smettere di scrivere cazzate e cominciare a raccontare la verità, e tutti potremmo porgere l’altra guancia .. Ci stiamo prendendo in giro? Ha visto Platoon? Quello che si porta in Vietnam tutti i libri perché pensa che riuscirà a leggere e poi si rende conto che era un’idea impossibile? Non funziona neanche nei film».
Esiste una morale personale, però. C’è una mano che compie un gesto.
«Quella mano non esiste fuori dal contesto. Non dimentichiamoci che gli ordini che riceve un funzionario dello Stato sono gli ordini che, risalendo la catena, gli impartisce la collettività, noi. Quel poliziotto col casco in testa ci rappresenta tutti. Noi che abbiamo votato quel governo, che ha nominato quel capo della polizia che dà gli ordini. La linea la traccia la democrazia. la collettività che dice: sgombra quella scuola e fallo utilizzando la forza, come sei stato addestrato a fare. Io, poliziotto, quando ricevo un ordine lo eseguo. Certo, esistono gli ordini illegittimi: se il mio capo mi dice: ”Spara sulla folla”, io lo arresto, come prescrive il Testo Unico di polizia. Ma al di fuori degli ordini illegittimi, non ci si fanno tante domande».
Il concetto di violenza, dice lei, è malleabile.
«Certo. Se un uomo urla in faccia a una donna senza muovere un dito, non è violenza?».
Ma Carlo Giuliani è morto.
«Per impreparazione. Quel carabiniere non sapeva fare il suo lavoro. Succede la stessa cosa se il chirurgo non sa operare. Piazza Alimonda è stata una tragedia, però, se vogliamo dire qual è stato lo scandalo di Genova, non dobbiamo parlare della Diaz, ma di Bolzaneto (la caserma in cui vennero interrogate le persone arrestate in quei giorni, ndr), lì c’è stata applicazione della violenza senza nessuno scopo operativo. Come dire: tortura. Io non avrei mai raccontato la storia di Bolzaneto perché quello è un discorso inaccettabile».
Lei perché ha smesso di fare il poliziotto?
«Per tanti motivi, ma soprattutto perché stavo diventando una persona che non mi piaceva: aggressivo, negativo nei confronti di tutto e di tutti. Guardavo la gente pensando: ”Che avrà questo che non va?”, sempre. I poliziotti sono legati da quello che io chiamo ”il segreto”: sanno che siamo tutti sporchi».
E perché aveva, invece, deciso di farlo?
«Perché un poliziotto è una persona ”riconosciuta” dalla Società, perché è una professione utile e stimolante. Quando hai paura, chiami la polizia».
Anche il poliziotto ha paura.
«Fa parte del gioco, anche per questo scegli quel mestiere».
E poi c’è anche una cosa che lei, nel libro, racconta molto bene: il piacere dello scontro.
«Certo: la violenza è una specie di droga, anestetizza. Quando giocavo a football, stare in campo, pensare come evitare di farmi spezzare le gambe, mi sgombrava completamente la testa».
Lei dice che il poliziotto è una figura «riconosciuta», ma il suo libro inizia e finisce con un coro: «Celerini pezzi di merda».
«Sono cose che ti dispiace sentire, ma a un certo punto diventi fiero di essere quello brutto, sporco e cattivo. Hai lo scatto d’orgoglio».
Perché ha scritto un romanzo e non un saggio?
«Perché mi lasciava più libero, perché è più efficace rispetto a quello che era il mio intento: denunciare l’ambiguità, dire che le linee sono sfocate».
Giacomo Gensini mi lascia con la storia di nonno Antonio. «Nonno Antonio vive nella casa al cui posto dovrebbe passare una strada che porta alla casa della sora Gina, che soffre di cuore e potrebbe aver bisogno dell’ambulanza. Ma nonno Antonio da quella casa nun se ne vole annà, perché lì c’è nato lui e pure er nonno der nonno der nonno. E se l’ambulanza non arriva la sora Gina potrebbe morire da un momento all’altro. lo quella casa la devo abbattere e ci mando la polizia a caccià via nonno Antonio che s’è barricato dentro. Posso sfondare la porta e tirà fori er vecchio per piede? No. Ma lo devo fare. Chi è che si prende tutto il peso di questa cosa? Quei quattro poliziotti mandati a fare lo sgombero. Dai una manganellata a nonno Antonio? Vergognati, ti condanno. No, no, lo lascio stare là, nonno Anto¬nio. Ma come, e se la sora Gina, poi, muore?».