Wilma Massucco, Il Manifesto 15/1/2009, 15 gennaio 2009
CORRO IN SELLA ALLA VITA
Non vedente dalla nascita, Cinzia Coluzzi inizia ad andare in tandem a 40 anni. Già concertista di pianoforte e insegnante di sostegno, nel 2005 conosce il tecnico della nazionale paralimpica di ciclismo, Mario Valentini, e la sua vita prende una curva inattesa. Quasi per scherzo sale in bici con Giovanna Troldi (un ex professionista) e un anno dopo conquistano l’argento mondiale a cronometro. Seguono il titolo italiano, altre tre medaglie ai mondiali del 2007 (1 argento a cronometro, 1 bronzo su strada in linea, 1 bronzo nell’inseguimento su pista), tre ai Giochi Panamericani (1 oro a cronometro, 1 argento su strada, 1 bronzo in pista) e il Giro del Belgio a tappe. Nel luglio scorso, due mesi prima delle Paralimpiadi di Pechino, un vizio procedurale la costringe a separarsi dalla sua compagna di guida e ricominciare tutto da capo. Le assegnano una nuova compagna, Melissa Merloni, da poco salita sul tandem. In Cina si devono accontentare del sesto posto. «Ho scelto di partecipare comunque, anche se era chiaro che avremmo avuto troppo poco tempo per prepararci adeguatamente ad una competizione così importante. Però volevo poter dire: Ok, alle Olimpiadi c’ero anch’io e ho dato il massimo».
Rimpiangi ancora la sostituzione di Giovanna Troldi?
Ho sofferto per non aver potuto fare la gara di inseguimento su pista, i miei tempi con Giovanna erano ottimi ma sono molto fatalista e penso che se il destino porta in una certa direzione, la si deve accettare. Dispiace certo, ma la realtà è quella che è. Ho perso mia madre a 17 anni e mio marito poco dopo esserci sposati. Vivo alla giornata e accetto quello che la vita mi dà. Indignarsi e gettarsi a terra non fa cambiare le cose. Quando mio marito stava male e ancora non mi ero rassegnata, sono andata da tutti i medici possibili. Quando il medico che lo aveva in cura mi ha detto «suo marito ha al massimo un anno di vita», io che sono sempre stata una persona positiva, ho pensato: «Ma tu chi sei per dirmi questo? Tu non sei nessuno». E allora sono andata da un altro. E poi da un altro ancora. Ogni volta che qualcuno mi dava speranza, la situazione precipitava di nuovo. Alla fine ho capito che è inutile tentare di forzare gli eventi della vita. Non ha senso.
Quando sei tornata a scuola, che cosa hai raccontato ai tuoi allievi dell’esperienza di Pechino?
Gli ho detto che avendo dato tutto, è stata comunque una grande esperienza, a prescindere dalle medaglie. E che bisogna trovare le motivazioni per andare avanti anche in una sconfitta inaspettata. Le difficoltà che ho incontrato nella vita mi hanno temprato. Da piccola ho vissuto in collegio fino a 17 anni: tornavo a casa solo a Natale, a Pasqua e durante l’estate. I miei vivevano in campagna lontano da Roma e non mi potevano venire a prendere spesso. Per questo ho sofferto e pianto molto. Poi ho iniziato a crescere e sono diventata un po’ randagia. Ho sempre avuto il pallino dell’autonomia e per questo cercavo di uscire. A 14 anni ho iniziato a frequentare la scuola secondaria (fuori dal collegio) e lì mi sono fatta le mie amicizie. Il collegio mi era diventato stretto, conoscevo ragazzi come tutte le adolescenti. Ho iniziato a marinare la scuola, una due tre quattro volte... finché non hanno chiamato mio padre e non mi hanno dato 4 giorni di sospensione. Dopo di che mi hanno sbattuto fuori dal collegio. Quando è morta mia madre e sono diventata maggiorenne, mi sono cercata una casa e ho iniziato a lavorare nei centri sociali insegnando pianoforte.
Oggi fai l’insegnante di sostegno in un liceo psicopedagogico.
Ho un diploma in Conservatorio e una laurea in scienze sociali, cinque anni fa sono passata di ruolo come insegnante di sostegno per le materie umanistiche (italiano, storia, lingue, educazione musicale). I miei allievi sono non vedenti come me, oppure soffrono di deficit mentali più o meno gravi. L’attività di sostegno si realizza in collaborazione con un altro insegnante, normodotato: è un tandem che funziona bene. Io lavoro soprattutto sull’autonomia e sull’indipendenza, un aspetto che spesso con i ragazzi disabili viene a mancare. Il punto è che prima dei ragazzi disabili, chi dovrebbe essere educato sono le rispettive famiglie che spesso non accettano il fatto di avere un figlio con dei problemi e diventano iper-protettive nei suoi confronti. Magari gli fanno ripetere una certa frase a memoria, ma a livello di autonomia, ben poco. A volte vedo ragazzi non vedenti che a 16-17 anni non sono mai usciti da soli, o stanno sempre davanti al computer. Si perdono tante cose che in realtà potrebbero fare.
Tu come vivi la tua disabilità?
Io sono nata non vedente a causa della toxoplasmosi contratta da mia mamma durante la gravidanza. Per cui non vedere per me è la normalità, fa parte di me. La mancata conoscenza di quello che perdi ti aiuta ad accettare quello che sei, anche se poi a livello pratico, ci sono cose che comunque si desiderano: a me, per esempio, piace la velocità e mi piacerebbe poter guidare una moto. Viceversa se una persona «diventa» non vedente, allora l’accettazione a livello psicologico è molto più difficile. Io faccio una vita normale, come tutti. Vivo da sola, in pace con me stessa. Ho sempre fatto sport, oltre al volontariato e a corsi di teatro. Quando dovevo imparare l’inglese, sono andata in Inghilterra. Vivo d’entusiasmo e passione in un mondo dove la guerra distrugge la vita di migliaia di persone.
La bicicletta è stata un bel aiuto.
Mi è sempre piaciuta sin da bambina, cominciai con mio padre. In città non posso andare ma fuori è tutto diverso. Posso toccare quello che mi circonda con tutti gli altri sensi: il lungomare, i profumi, la brezza. Quando pedaliamo, chiedo sempre: che c’è qui? L’agonismo ha aggiunto il brivido: il tandem fa paura anche ai professionisti. A me no.