Paolo Brusorio, La Stampa 16/01/2009, 16 gennaio 2009
INTERVISTA A LILIAN THURAM
PAOLO BRUSORIO PER LA STAMPA DI VENERDì 16 GENNAIO
Il cuore matto l’ha messo in fuorigioco. Senza quella pericolosa anomalia, la stessa che anni prima aveva stroncato il fratello su un campo da basket, Lilian Thuram sarebbe ancora lì, piantato in mezzo alla difesa del Paris Saint Germain che quest’estate l’aveva riportato a casa comprandolo dal Barcellona. E invece no, rischiava di scoppiargli in petto quel muscolo, troppo rischioso continuare. Da allora, l’ex capitano della Francia ha percorso altre strade. Diffondere il verbo antirazzista, seminare civiltà cavalcando la sua fama. Ieri era a Roma, invitato alla Camera per la presentazione del «Libro Bianco sul dialogo interculturale», pubblicazione curata dal Consiglio d’Europa. Ambasciatore di un pensiero ancora troppo debole per camminare da solo, serve chi ci mette la faccia. Eccola: «Fondazione contro il razzismo». Ha due anni di vita e prova a disinnescare le discriminazioni. L’artificiere è l’ex muro di Parma, Juve e, meno, Barça. 142 presenze con la nazionale francese, nessuno come lui. E non solo per la fedeltà ai Bleus.
Come nasce questa seconda vita?
«Dalla mia storia. Arrivo dalla Guadalupa e in Francia ho capito che il colore della pelle poteva crearmi dei problemi. Ho iniziato a farmi delle domande, non ho più smesso».
Ha trovato anche qualche risposta?
«Sì. Che non si può risolvere tutto dando dello stupido a chi è razzista. troppo comodo».
E allora che si fa?
«Si parla. Si fa educazione nelle scuole. Si rompe il pensiero unico. Hamilton ha vinto il Mondiale di F1... Oddio, che sorpresa, anche i neri sanno guidare... Ancora a questo siamo».
Però il calcio fa più fatica degli altri sport ad espellere il razzismo: perché?
«Semplice. Perché è lo sport più seguito al mondo, si tira dietro tutti i veleni della società».
Francia, Italia e Spagna. Conosciamo il razzismo dei tifosi. Ma in campo, tra calciatori?
«Esiste. Una volta in Italia, forse eravamo con la Juve a Piacenza, uno di loro ha cominciato a insultarmi. Io ridevo. Cannavaro gli ha detto a muso duro di piantarla. E tutto è finito lì. Il nome? Inutile, quello non era un razzista. Ma qualcuno l’aveva fatto diventare così».
Lei è famoso: nei suoi confronti il razzismo è scomparso o si è solo raffinato?
«Esiste ancora. Due anni fa a Parigi aspettavo Vieira fuori da un ristorante. Patrick era in ritardo così chiesi di entrare: non me lo permisero. Non mi avevano riconosciuto, in quel momento ero solo un nero».
I calciatori parlano di razzismo?
«Sì, ma come in tutti gli ambienti c’è chi ti dà retta e chi no. Quindi bisogna agire dall’esterno».
«Troppi neri con la maglia della Nazionale»: lo disse nel ”98 Jean-Marie Le Pen, allora leader dell’estrema destra francese. Lei gli rispose a tono. Che cosa è cambiato?
«Quel pensiero è stato ridotto a minoranza. Ma guardi che anche in Italia molti calciatori mi rinfacciavano la stessa cosa, ”quella non è la nazionale francese, voi non siete neri”».
Dieci anni dopo Balotelli ha indossato la maglia azzurra
«Visto? la prova che anche da voi è in corso un grande cambiamento. Sarà completo quando non vi stupirete più di un nero in nazionale».
Nei giorni della rivolta nelle banlieues di Parigi, era il 2005, lei è stato un simbolo di quella protesta? Orgoglioso o preoccupato?
«Non mi sento rappresentante di nessuno. Diciamo che quei ragazzi hanno visto in me una persona che cercava di ascoltarli. Senza pregiudizi».
Non è mai stato molto tenero con Sarkozy, che cosa gli rimprovera?
«Di ingigantire i pregiudizi per compattare la gente. Come tutti gli altri leader, del resto».
Lei sembra molto attratto dalla politica, però.
«A me piace capire. E la politica può essere un mezzo. C’è già chi mi ha offerto una candidatura, vedremo».
Ma il calcio lo segue ancora?
«A me il calcio piaceva giocarlo. Non vederlo. Anche quando ero in attività, conoscevo pochissimo i miei avversari».
Sta per cominciare il processo penale di Calciopoli: le interessa sapere come andrà a finire?
«Conoscere la verità è sempre importante. Poi qualunque sarà il verdetto, la mia vita non cambierà. Mi basta ricordare quello che ho fatto sul campo in quei due anni».
Lei, Cannavaro e Zambrotta: la Juve in B, voi all’estero. Pentito?
«Affatto. Come da bambino, ho sempre voluto giocare nella squadra più forte. E la Juve retrocessa non lo era più. Avevo 34 anni e mi cercava il Barcellona: era giusto andare via».
Visto Del Piero? rimasto e sembra un ragazzino. Se l’aspettava?
«No. Ma quest’estate ero a San Siro per il trofeo Berlusconi, ho guardato la partita dall’alto e ho capito tutto. Nessuno sul campo ha la sua intelligenza, lui sa quando tirare e quando passare, quando correre e quando rifiatare. Ecco il suo segreto».
Ibra: all’Inter è ancora più forte.
«Ibra è un fenomeno. Non ci sono parole» .
Senza la malformazione cardiaca lei sarebbe ancora in campo.
«Vero, ma è meglio così. Altrimenti sarei andato avanti fino a 50 anni e chissà come mi sarei ridotto».