Fabrizio Galimberti, Il sole 24 ore 14/1/2009, 14 gennaio 2009
IL RIFUGIO ACCOGLIENTE DEI TITOLI DI STATO
Strani timori e strani tremori quelli della finanza pubblica di oggi. I paradossi si sprecano, in tutti i Paesi: i deficit aumentano senza rispettare meridiani e paralleli, i debiti pubblici si gonfiano ma i tassi scendono. I khomeinisti delle finanze pubbliche - "il deficit è un peccato mortale" - sono sulla difensiva. Il peccato sarà punito, dicevano, perché i mercati chiederanno un tasso più alto a quei Paesi irresponsabili che lasciano lievitare il disavanzo. Ma succede il contrario. E i tassi sono scesi così tanto - il Bund a 10 anni ieri rendeva meno del 3% - che (altro paradosso) i collocamenti diventano difficili, come financo la Germania ha appena sperimentato: essendo praticamente certo che di qui a 10 anni, finita la buriana della crisi (prima di 10 anni!) i tassi torneranno a livelli "normali", e chi non si voglia tenere il Bund fino alla scadenza ne vedrebbe scendere le quotazioni.
Intanto la trama si infittisce. Lo shock della crisi è stato simmetrico, come dicono gli economisti (ha colpito tutti egualmente), ma le conseguenze su tassi e valute non sono state simmetriche. In America - il Paese più "colpevole" e quello che soffrirà di più nell’economia reale - i tassi sono scesi più che altrove e la valuta si è paradossalmente rafforzata (quando la peste infuria e il pan ci manca gli Usa sono sempre il Paese-rifugio). All’interno dell’area euro i tassi sono scesi dappertutto ma non in misura simmetrica. I tassi sono scesi di molto in Germania (che è il Paese-rifugio dell’area euro) e sono scesi nettamente di meno negli altri Paesi, allargando i divari. A questo punto le sindromi punitive di mercati e agenzie di rating hanno cominciato il tiro a segno: i divari si sono aperti al massimo per Grecia (timeo Danaos, specie con un deficit con l’estero del 14% del Pil), Portogallo, Spagna e Irlanda (anche qui, deficit con l’estero terrificanti, con l’aggravante per Spagna e Irlanda di essere state troppo "americane": crescita spinta da una bolla immobiliare anche più forte di quella Usa). Per l’Italia, invece, Standard & Poor’s ieri ha mantenuto il proprio giudizio stabile, sia pure col solito avvertimento sul debito pubblico troppo alto.
Ma tutti questi divari e i collegati patemi per le aste dei titoli non devono far dimenticare una semplice verità: i rendimenti dei titoli di Stato sono scesi dappertutto.
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Questo con grande sollievo delle casse pubbliche, che ne avevano bisogno, visto quello che succede in altre voci di entrate e spese. E gli unici titoli che hanno fatto felici i risparmiatori nell’annus horribilis appena trascorso sono stati i titoli pubblici, specie quelli a lunga: come ha appena ricordato l’Economist, in America la performance dei bond del Tesoro ha superato quella della Borsa di ben 53 punti percentuali.
Sì, ma poi cosa succederà?, si chiedono i rigoristi, ben spalleggiati da quelle agenzie di rating che avevano accuratamente indossato i paraocchi quando spargevano triple A ai titoli tossici. Succederà che per riportare i deficit pubblici a livelli normali bisognerà fare delle scelte difficili.
Ma prima di parlare di queste scelte difficili bisogna ricordare con forza un’altra semplice verità: no, il deficit non è un peccato mortale. Se questa crisi ci ha insegnato qualcosa, ci ha insegnato che Keynes aveva ragione: per far circolare sangue e soldi nel gran corpaccio dell’economia bisogna che qualcuno spenda, e se il settore privato non spende deve spendere lo Stato.
Ciò detto, è certamente vero che il soccorso della spesa in deficit non deve portare a disavanzi in servizio permanente effettivo. E qui soccorrono rimedi di buon senso: le misure scelte, se mettono soldi nelle tasche dei cittadini, devono andare a coloro che poi quei soldi li spendono; nella misura del possibile, devono essere reversibili; e quando non siano reversibili, devono essere misure che facilitano la crescita, come la spesa per infrastrutture, o che, anche se non aiutano l’economia nell’immediato, migliorano gli equilibri della finanza pubblica nel medio periodo, come l’aumento dell’età pensionabile. Ricette, queste, che valgono per tutti i Paesi e segnatamente per l’Italia, che di stimoli ha bisogno quanto e più degli altri.
L’economia di mercato è essenzialmente una mezzadria fra pubblico e privato, e non è neanche chiaro chi sia il mezzadro e chi il padrone: i ruoli si alternano, secondo i tempi, i Paesi e i cicli. In questo tempo, in questi Paesi e in questo ciclo, deve essere il pubblico a menare la danza.
Ma il settore pubblico può regolare e stimolare, non può produrre. E una politica economica ben temperata deve preoccuparsi oggi di stimolare l’attività con misure che innalzino non solo e non tanto la crescita nel breve periodo, ma il tasso potenziale di crescita nel lungo. Perché sarà solo la crescita - il denominatore del rapporto deficit/Pil - che riporterà sotto controllo la finanza pubblica.