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 2009  gennaio 14 Mercoledì calendario

LA PACE E’ UN SOGNO PERDUTO LA RABBIA DEGLI ORFANI DI ARAFAT


Laggiù la fame incombe e gli ospedali non ce la fanno più. Mentre qui i bambini ridono, i ristoranti sono aperti, i mercati ben forniti. Laggiù, sulla costa, c´è Gaza; qui siamo sulle alture della Cisgiordania, a Ramallah, capitale dei territori occupati, dove i bancomat emettono, a scelta, dollari o shekel.
Tra queste due parti di quella che un giorno sarà la Palestina il contrasto oggi è violento, come tra Israele e i territori occupati. Nuove costruzioni sorgono a Ramallah, ville e palazzine crescono con velocità quasi pari a quella delle bombe israeliane che radono al suolo ogni cosa nel feudo di Hamas. Qui la crescita è forte, le marche di cellulari si fronteggiano a colpi di poster pubblicitari, le famiglie escono a passeggio; eppure a Ramallah lo sbigottimento non è meno impressionante della tragedia di Gaza.
Non tanto perché le lacrime e il sangue di laggiù sono onnipresenti, importati dai canali satellitari arabi che denunciano i «sionisti» e chiamano alla vendetta in ogni angolo dell´Islam. E neppure perché ognuno si sente umiliato dalle cariche della polizia palestinese che impediscono ai giovani di andare ad attaccare i posti di blocco israeliani. Al di là del sollievo, a Ramallah ci si vergogna di essere sfuggiti alla sorte di Gaza, si è annichiliti dal senso d´impotenza, e terribile è soprattutto lo sguardo vuoto di quella generazione di intellettuali che aveva predicato il compromesso e creduto di poter arrivare a una convivenza tra due Stati, alla pace, quella vera.
Cristiani o musulmani, poliglotti o pluridiplomati, furono loro a convincere Yasser Arafat ad accettare l´esistenza di Israele. Ispiratori degli accordi di Oslo, dell´insediamento di Arafat a Ramallah, della creazione dell´autorità palestinese, della folle speranza degli anni 90, presto delusa. E anche degli "Accordi di Ginevra", di quella proposta di soluzione definitiva costruita insieme alle forze israeliane impegnate per la pace. Hanno sempre sperato di veder realizzato, prima di morire, il loro sogno. Oggi, coi capelli incanutiti, dicono tutti che ormai «non c´è più niente da fare».
Odiano Hamas per aver provocato questo dramma con i lanci di razzi su Israele; temono la sua volontà di islamizzare il sistema giuridico palestinese, e soprattutto la sua ambizione di subordinare la lotta nazionale a una battaglia messianica per l´unità dell´Islam. Ma pur detestando tutto di questo Movimento di resistenza islamica, diramazione palestinese dei Fratelli musulmani, in pubblico non direbbero una sola parola per attaccarlo. «Dopo quello che è successo non è più possibile - dicono. Sarebbe come giustificare i bombardamenti contro i nostri familiari, i nostri amici, tutto il nostro popolo. E poi - aggiungono - a cosa servirebbe? Se si votasse domani, Hamas vincerebbe alla grande. Ormai è stata uccisa l´idea stessa di una soluzione negoziata, la nostra idea».
Meglio non chiedere perché escludano che un domani, davanti al confronto tra Gaza e Ramallah, i palestinesi finiscano per rivalutare la strategia di Al Fatah e bocciare quella di Hamas, aprendo così la strada alla formazione di un governo di unità nazionale. «Impensabile», risponde uno dei miei interlocutori alzando le spalle. «Hanno condotto una battaglia sapendo di essere militarmente perdenti, ma vincenti sul piano politico; grazie a questo scontro Hamas si è legittimato, come già aveva fatto più volte Arafat, e in un governo unitario avrebbe un ruolo dominante. «Dunque si può immaginare che ora Hamas, sull´esempio di Arafat, passi al negoziato con Israele�». «Per una tregua, magari anche lunga - risponde un altro - ma non quella pace che ci permetterebbe di costruire uno Stato di diritto». Tutti annuiscono, e un terzo aggiunge: «Crede che abbiamo voglia di vivere sotto la sharia? Che ci siamo battuti per questo?»
La quarta voce è quella di una donna: «Non dimentichiamo che in tutto il resto della Cisgiordania la vita è molto più dura che a Ramallah. Se è vero che la strategia di Hamas ha portato solo al fallimento e al sangue, noi pure abbiamo fallito». Gli intellettuali - al pari del pizzicagnolo, dello studente, dell´avvocato - dicono tutti, a malincuore ma pressoché unanimi, che non si poteva non fermare Hamas prima che potenziasse ancora la portata e la precisione dei suoi lanci di razzi, minacciando non solo le città del Sud più vicine a Gaza ma l´intero territorio israeliano. «Cos´avreste fatto voi, in Europa, se una delle vostre regioni fosse stata colpita in questo modo ogni giorno, per mesi? Sareste rimasti con le mani in mano? Sicuramente no».
Appuntamento con un filosofo e un cineasta della sinistra pacifista. Il primo si scaglia contro «questo Stato fascista» - il suo. Il secondo ascolta, lo lascia dire, e alla fine risponde col tono del professore esasperato dalla stupidità di uno studente. A un dato momento, dice, il ricorso alla forza diventa inevitabile, a volte non si può fare a meno della violenza per provocare una vera svolta, e nel caso di specie la batosta sarà sufficiente perché in futuro Hamas valuti meglio i rischi. «Ah sì?» ribatte il filosofo. «E adesso? Cosa si costruisce su questo risultato?».
Dal cineasta ai ministri, gli israeliani - come gli intellettuali di Ramallah - non sanno rispondere a questa domanda. Indubbiamente il Movimento della resistenza islamica ha subito un grave rovescio militare; e l´estrema prudenza degli Hezbollah libanesi dimostra che hanno recepito il messaggio. Ai suoi confini Nord e Sud, Israele ha dato di che riflettere alle due leve regionali dell´Iran. Ma la sua immagine internazionale è così profondamente squassata, l´orizzonte politico così basso, l´autorità palestinese tanto indebolita, il risentimento dei palestinesi esacerbato a un punto tale che a Gerusalemme nessuno, sollevato o meno, canta vittoria.
Le capitali arabe e Israele, uniti da una minaccia comune, oggi fanno fronte contro l´Iran e gli islamisti; li hanno messi in difficoltà, ma per quanto tempo? Nell´intera regione, il radicalismo islamista si avvantaggia dell´abominio di Gaza. I regimi arabi, e in particolare quello egiziano, ne escono tutt´altro che rafforzati. Il dialogo israelo-palestinese non riprenderà tanto presto, e se i pacifisti israeliani e quelli palestinesi hanno ancora un punto in comune, è la convinzione di non poter fare più nulla per la pace. Solo le grande potenze - dicono sia a Tel Aviv che a Ramallah - potrebbero imporla a quelle due nazioni paralizzate dalla paura, dalla diffidenza, dalla mediocrità dei loro dirigenti e da troppe speranze deluse.
Dall´una e dall´altra parte gli sguardi sono rivolti a Washington. Cosa farà Obama? Darà disposto a farsi carico del più inestricabile dei conflitti, quando già lo aspetta il compito di salvare l´economia americana? Ce la farà?
Tel Aviv e Ramallah vorrebbero crederlo, ma ne dubitano, nonostante la sua promessa di un impegno «immediato». Tra qualche giorno avremo la risposta.