Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  gennaio 13 Martedì calendario

LUIGI LA SPINA PER LA STAMPA


QUESTA E’ LA STORIA, CURIOSA, di un prete brianzolo che diventa prima teologo e moralista di fama, poi vescovo di diocesi importanti, fino a quella più grande d’Europa, a Milano, e, alla soglia della pensione, viene trasformato, suo malgrado, addirittura in un leader politico-religioso. Ma è anche la storia di un uomo di umili origini, simpatico e aperto al dialogo con tutti, straordinario pastore d’anime, che, un po’ malandato per l’età e per la salute, si libera delle prudenze e delle convenienze necessarie in una carriera ecclesiastica come la sua, e manifesta fino in fondo la libertà di essere sé stesso.
Chi avrebbe mai pensato che Dionigi Tettamanzi, nato quasi 75 anni fa in un paesino della Brianza, figlio di un operaio e fratello di un falegname, sarebbe diventato un «caso» nella Chiesa e nella società italiana d’oggi, fino ad essere accusato da un ministro della Repubblica, Roberto Calderoli, di essere «l’ultimo comunista» sul suolo patrio e, soprattutto, su quello padano? Un erede della cattedra di San Carlo che viene sospettato nientemeno di infedeltà, rispetto al Papa, persino da un cattolico che si autodefinisce «liberale» come l’ex presidente Cossiga.
Eppure la fama di moderato, «centrista» per usare la tradizionale e schematica etichetta che si usa per classificare anche gli uomini di Chiesa, era solida quando cominciò, ad Ancona nel 1989, la sua carriera di vescovo. Tanto da suscitare una certa diffidenza nell’accademia dei teologi ambrosiani che, accusandolo di eccessivo conformismo e conservatorismo, lo costrinsero ad emigrare fuori dalla sua regione per iniziare il suo lungo insegnamento in materia. Ma anche quando, due anni dopo, venne eletto segretario della Conferenza episcopale le sue posizioni dottrinali, pastorali e politiche non si discostavano dalla più allineata ortodossia. Ed è questa la «targa» con la quale venne accolto, a metà degli Anni 90, nella diocesi di Genova, quando ne diventò arcivescovo. Anzi, per una insinuazione che, come vedremo, sconterà amaramente in seguito, Tettamanzi suscitò qualche malumore negli ambienti progressisti della città per le voci che lo dipingevano come troppo amico di «Comunione e Liberazione».
E’ nella capitale ligure, però, che il suo nome incomincia ed essere fagocitato dalle attenzioni pericolose della celebrità mediatica. Fa scalpore, infatti, la sua apertura ai «no global» che, pur essendo stata manifestata ben prima degli incidenti tragici di quei giorni, alla luce di quanto successo dopo a Genova, lo pongono in una situazione di un certo imbarazzo. Ma tutto viene dimenticato quando, nel luglio del 2002, viene nominato dal Papa arcivescovo di Milano.
L’eredità del cardinal Martini nella diocesi più importante d’Italia, tradizionalmente molto autonoma, persino liturgicamente, dal potere romano è tale da porre Tettamanzi nella condizione di essere uno dei candidati d’obbligo alla successione di Giovanni Paolo II. Ma un segnale negativo, una specie di sfortunata premonizione, arriva, per lui, proprio nel giorno dei funerali del grande fondatore di CL, don Giussani. L’omelia di commemorazione, nel febbraio 2005, a pochi mesi dal Conclave, non viene affidata a Tettamanzi, come sarebbe stato naturale, ma all’allora prefetto della Congregazione della Fede, Joseph Ratzinger. Non solo. Tutti i ciellini manifestano evidentemente una certa freddezza nei confronti dell’arcivescovo di Milano e tributano al futuro Benedetto XVI una accoglienza trionfale.
L’elezione di un Pontefice a cui Tettamanzi riserva una sicura fedeltà, ma che non è certamente in sintonia con le sue caratteristiche umane, culturali ed ecclesiastiche, sembra liberare pienamente la personalità dell’arcivescovo di Milano nel dispiegamento di una attività pastorale più intensa e più orientata a distinguersi nel panorama attuale della Chiesa italiana. Accentuando la predicazione di un dialogo con tutti, islamici compresi. Rinnovando le aperture ai divorziati e ai risposati cattolici, perché non si sentano esclusi dalla comunità diocesana. Ma incalzando, soprattutto, istituzioni pubbliche e private alla solidarietà verso i più bisognosi con la sua frase-slogan: «I diritti dei deboli non sono affatto diritti deboli».
Questo impegno sociale arriva, alla vigilia dell’ultimo Natale, ad una iniziativa clamorosa: l’istituzione di un fondo anti-crisi, attingendo ai finanziamenti dell’8 per mille, per aiutare le famiglie in difficoltà e per quelle colpite dalla disoccupazione. Una mossa nel solco della tradizionale concretezza lombarda, ma che tende anche a disinnescare la mai sopita polemica sull’utilizzo di quelle risorse stabilite dal Concordato, così com’è stato rivisto all’epoca di Craxi.
L’unanime consenso che accoglie questo stanziamento iniziale di un milione di euro, destinato a crescere con le offerte dei fedeli nella diocesi, non viene invece riservato all’atteggiamento di Tettamanzi nei confronti degli immigrati, specialmente quelli di fede islamica. La predicazione di un dialogo, anche con chi non sembra disponibile ad accoglierlo, viene subito contestata dalla Lega con un crescendo di polemiche che arrivano a volantinaggi clamorosi davanti alle chiese. Fino alle più recenti accuse di eccessiva tolleranza, dopo la preghiera islamica in piazza Duomo. Tettamanzi, in realtà, si rende conto del rischio insito nel possibile mutamento identitario di un Islam italiano che pare accentuare gli aspetti politici rispetto a quelli religiosi. Ma la sua linea prudente è tesa a controllare e a gestire una situazione difficile, sulla quale una immediata e bruciante condanna avrebbe provocato più effetti negativi che positivi.
Per comprendere, però, come la posizione dell’arcivescovo di Milano susciti scandalo e il perché un prelato che non si sente e non è un leader si sia trasformato nell’interprete di una linea che appare distinta rispetto a quella del vertice Cei, occorre allargare lo sguardo alla Chiesa italiana d’oggi. Privo della guida forte di Ruini, l’episcopato del nostro paese sembra esprimere poca personalità nei singoli capi delle diocesi e una linea politica complessiva meno chiara. Ecco come mai, da una parte le attese dei fedeli, dall’altra le impazienze dei media, riescano a far diventare un «buon pastore» alla fine del suo mandato un pericoloso rivoluzionario.