Francesco Licata, La stampa 13/1/2009, 13 gennaio 2009
FRANCESCO LA LICATA PER LA STAMPA
LE FUGHE ROCAMBOLESCHE SUSCITANO SEMPRE dubbi e sospetti. Una grande fuga sottintende, almeno nell’immaginario, complicità istituzionali sfrontate. Così come una grande cattura fa pensare al tradimento compiuto dagli amici del «catturato». Non esiste delinquente che, al momento delle manette, non abbia fatto dire ai soliti saccenti: «Chissà chi dei suoi fedelissimi lo ha venduto». E così, guardando il film di Setola che attraversa due chilometri di fogne, i più avranno pensato che il killer un «aiutino» deve averlo ricevuto magari da qualche «sbirro». Ma è davvero così? C’è sempre «colpa inconfessabile» nelle operazioni di polizia che falliscono o spesso è l’infortunio professionale, magari per una «caccia» organizzata all’improvviso, a determinare il fallimento?
I malpensanti sono portati a identificare la «buona sorte» dei fuggiaschi con la «distrazione pilotata» dei cacciatori. E la storia criminale del nostro Paese abbonda di episodi dubbi, come quello che restituì la libertà, il 12 maggio 1983, al «chimico» di Cosa nostra, Francesco Marino Mannoia. Anzi, quella storia era davvero scandalosa, visto che Mannoia lasciò il carcere di Castelbuono, sulle Madonie, per «il rapporto di fiducia» che si era instaurato «tra i detenuti e i secondini». Il mafioso chiamò al telefono il fratello Agostino che arrivò davanti al cancello insieme col padre. Francesco chiese di poter aiutare i congiunti a «sistemare» l’auto e gli agenti «comprensivi» acconsentirono, dopo avergli anche comunicato che il Tribunale aveva revocato il condono e perciò avrebbe potuto essere trasferito all’Ucciardone. Mannoia dichiarò a Giovanni Falcone che due agenti lo avevano anche aiutato a caricare sull’auto del fratello la tv e gli oggetti che stavano nella sua cella. Niente male, come carcere.
Tommaso Buscetta disse che tra gli investigatori avevano «amici», ma raccontò pure che le latitanze anticamente venivano attivate da complici che abitavano nei paesini di montagna e «scendevano in città» coi muli per prelevare il fuggiasco e portarlo «lassù», dove gli «sbirri» non sarebbero mai andati. E oggi? Il latitante può godere di protezioni, certo. Bernardo Provenzano riusciva a sapere in tempo reale dove venivano sistemate le microspie. Ma la tecnologia sembra aver ridotto il «bisogno» di gole profonde all’interno delle forze di polizia. Setola ha visto arrivare i carabinieri sul monitor della sua stanza da letto, i mafiosi usano le «sentinelle» che avvertono la presenza di «estranei sospetti». La casa di Michele Greco poggiava su una rete di cunicoli, Giovanni Brusca disponeva di un nascondiglio sotterraneo accessibile attraverso un «ascensore», che tornava in superficie sotto forma di normale pavimento. Chi vive in clandestinità si predispone sempre una via di fuga, una volta erano i tetti di palazzi confinanti, oggi le tecniche si sono affinate. Se i carabinieri avessero avuto più tempo, forse, non sarebbero stati giocati così facilmente.