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 2009  gennaio 11 Domenica calendario

POPEYE, CHE ANTIDEPRESSIVO


Fu grande, il successo di Popeye dall’occhio sguercio, dai muscoli degli avambracci esagerati in rapporto al corpo ossuto e magrolino, dall’eterna pipetta di sughero in bocca, di Popeye iracondo, attaccabrighe e ignorante ma di gran cuore e di splendida generosità, pronto a mettersi ogni volta nei guai per aiutare chi ne ha bisogno o per difendere i suoi cari, circondato da personaggi ugualmente coloriti e bizzosi – anzitutto la moglie Olive Oyl cioè Olivia, compagna formidabile e allampanata, quasi sempre sulla difesa, e il cattivaccio Bluto che inutilmente insidia la sua virtù – ma anche suoceri e compari brontoloni o famelici (l’insaziabile Poldo Sbaffini, alias J. Wellington Wimpy), un figlioletto adottivo, Pisellino (Swee’ Pea) intrufolone come un animaluccio selvatico. Attorno a loro, tutta una galleria di comprimari popola un paese di pescatori, Sweethaven, che può somigliare a mille altri anche in altre nazioni (che so? la Chioggia di Goldoni o il quartiere marsigliese di Pagnol).
Braccio di Ferro nasceva 80 anni fa, nel 1929. Fa notizia che in Europa il fumetto di Elsie Crisler Segar, morto nove anni dopo, nel 1938, diventi di dominio pubblico. La legge prevede che a settant’anni dalla sua scomparsa l’opera di un autore non sia più protetta dal copyright, che i suoi eredi non possano pretendere diritti d’autore (altra cosa la protezione del marchio, si veda l’articolo a fianco). Già settant’anni possono sembrarci eccessivi, ma non lo sembrano agli statunitensi, le cui leggi sono più "capitalistiche" e più complicate delle europee e riguardano l’uscita di un’opera, la nascita di un personaggio, protetti per 95 anni e cioè quasi un secolo: e poiché la data di nascita ufficiale di Popeye/Braccio di ferro è il 1929, ci saranno "eredi" degli eredi di Segar (ma lì si tratta di grandi società piuttosto che di privati) per molti anni ancora.
In un film (fallito) del 1980, un grande fumettista e vignettista satirico, forse troppo colto e troppo newyorkese, Jules Feiffer, volle fare di Sweethaven l’emblema di una società, disse il regista del film Robert Altman, «autoritaria e fascista, dove uno è costretto a fare quello che qualcun altro ha deciso per lui», ma si trattò di una lettura molto a posteriori, dentro un’America radicalmente mutata in cui sembravano sconfitti definitivamente i presupposti di una democrazia avanzata e convincente, e in cui anche Popeye & Company erano mutati. L’uso di Popeye e di Sweethaven per delle tesi post-movement sembrò decisamente forzato, abusivo e irrispettoso nei confronti del Popeye delle origini. Come sarebbe stato leggere in chiave fascista il cinema di John Ford, il cui populismo ha molto da dividere con quello di Segar.
La piccola comunità in cui vive Popeye sembra di derivazione europea, di proletari immigrati (Popeye ha qualcosa dei personaggi irlandesi di Ford, alla Victor McLaglen) è un microcosmo antico e tipico, simile a tanti e però diverso, autonomo. Non va dimenticato che, con una coincidenza che oggi ci colpisce, l’anno di nascita ufficiale di Popeye, il ’29, coincide con il crollo dell’economia americana e dei sogni di arricchimento dei roaring twenties, dell’«età del jazz». Il ritorno all’America minore, alla piccola comunità sana e quasi autosufficiente e alla sua solidarietà primaria attraversa molte opere di quegli anni, di cui il «sistema» dei media si servì vuoi coscientemente vuoi istintivamente per frenare il disastro.
Il 1929 è anche l’anno in cui trionfa il cinema sonoro, e i media più diffusi – per l’appunto il cinema e il fumetto – veicolano messaggi di resistenza, esaltano la positività e la creatività, la capacità di risposta del popolo. In questa tempesta, anche Popeye è una risposta conscia o inconscia alla crisi, allo stesso modo del Dick Tracy di Chester Gould, poliziotto tutto d’un pezzo in un’America bensì metropolitana, o l’altrettanto «esagerato» ma di segno contrario, decisamente comico, Li’l Abner di Chester Gould, nella depressa contea montanara di Dogpatch apparentemente fuori della storia... I cattivi di Dogpatch o di Sweethaven non sono certo così cattivi – e organizzati, criminali, avidi – come quelli della big city, la piccola comunità ha apparentemente nemici meno grandi da cui difendersi, non ha bisogno di eroi alla Dick Tracy o di super-eroi alla Superman (data di nascita 1938, in prossimità di una guerra mondiale) e la sua idea di legge è diversa, meno astratta, legata a esperienze fuori dall’eccezionalità e dall’emergenza. Popeye non ha bisogno di kryptonite, a Popeye bastano gli spinaci! E gli spinaci servono a far prosperare un mercato, per il quale Popeye farà di più che tonnellate di pubblicità diretta... (con conseguenze immaginabili anche sulle sue vicende che, dopo Segar, saranno purtroppo sempre più insulse, con situazioni e personaggi apparentemente più fantastici ma sempre più aridi e simili a quelli del peggior fumetto seriale). La vitalità di Popeye e del suo gruppo rispetto ad altri personaggi derivava da un’idea di comunità, dalla minuscola scena della piccola città non omologata, non ricca, di paese o quartiere dove ognuno ha un suo compito e deriva da esso la sua identità, dove l’esperienza di ognuno si lega a quella comunitaria e ne dipende. Non era diversa neanche la Paperopoli disneyana, che fu bensì un’invenzione italiana più che americana, restando invece Topolino personaggio metropolitano, versione soft e bigotta del bravo poliziotto Dick Tracy. In un tentativo di razionalizzazione a posteriori – la sociologia dei mass-media è un settore fondamentale per comprendere il Novecento – è impossibile non legare la figura di Popeye a una storia più vasta. In breve, quella del legame tra cultura popolare, più o meno spontanea, e cultura di massa, industrializzata. successo nella prima parte del secolo (e almeno fino agli anni di Feiffer e di Altman) che la cultura di massa si sia servita di un’enorme tradizione spontanea di miti e fiabe e spettacoli e canti e rappresentazioni e racconti nati dalle differenti culture con una grandissima varietà di apporti locali, "dialettali". La grande stagione del cinema, del fumetto e della canzone è stata quella in cui questi media si sono nutriti della tradizione popolare, l’hanno saccheggiata e divorata. Si poteva pescare da un’enorme riserva di idee figure suoni a disposizione della "riproducibilità tecnica" delle opere grazie alla quale la cultura di massa si è imposta come evoluzione industriale della cultura popolare, con esiti, quali che fossero le intenzioni, di ampliamento dell’area della conoscenza e dell’immaginario popolari, e in definitiva di contributo alla stessa democrazia. Anche dove più manipolata, la cultura di massa ha avuto per tanti decenni una funzione democratica e positiva.
Quello che è valso per il cinema, almeno tra la fine della Prima guerra mondiale e la fine della guerra del Vietnam, l’inizio dell’era dei computer, vale anche per la storia della canzone o del fumetto. Anche il fumetto, come il cinema e la canzone, vive oggi un evidente declino sul fronte della cultura di massa, poiché non c’è più molto da prendere dal basso di una cultura popolare che è stata trasformata ossessivamente in cultura di massa. Oggi esiste solo questa, inventata dall’alto e senza più scambio con una creatività collettiva. Tutto parte dall’alto, e per i Popeye non c’è più posto. Il fumetto seriale vive una fase di decadenza, sostituito da media molto più diffusi e rilevanti, ma si è aperto ai suoi margini uno spazio di resistenza e creatività nuova che si chiama oggi graphic novel, certamente di pochi, intellettuale e non di massa (o non ancora). La storia continua.