Stefano Salis, Il sole 24 ore 11/1/2009, 11 gennaio 2009
IL NOVECENTO IN COPERTINA
Fateci caso: quando "incontrate" un libro avete a che fare certo con un testo, ma anche con un oggetto. Anzi: forse prima di tutto con un oggetto. Perché la decisione dell’acquisto, quasi sicuramente, non sarà stata dettata dalla conoscenza del contenuto ma piuttosto dalla bellezza e dall’"efficacia commerciale" del contenitore: il nome dell’autore (se vi è già noto), il titolo (bello o no), magari l’editore o la collana, di sicuro la copertina.
Fateci caso: la prima cosa che vi si presenta del libro è la copertina. E, spesso, il libro va di pari passo con la sua copertina: per milioni di italiani, tanto per fare un solo esempio, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa è sì la vicenda del principe di Salina e delle sventure della sua famiglia ma quella vicenda si identifica "fisicamente" nel film e, prima ancora, in quella copertina ingiallita – con un nobile sfuocato in primo piano – disegnata nel 1958 da quel maestro che fu Albe Steiner (nella foto qui nel testo), allora art director di Feltrinelli.
Ecco: farci caso. questo il punto. Perché troppo spesso la storia del libro italiano è stata fatta, scritta e tramandata senza fare riferimento alcuno alla struttura artigianale e, soprattutto, industriale che vi sta dietro. Occupandosi solamente dell’aspetto "contenutistico": il più importante, per carità, ma non l’unico. Chi ha lavorato in editoria – e le testimonianze eccellenti sono numerose, da Calvino a Vittorini a Sereni... – sa quanto sia importante la «grafica editoriale». A maggior ragione in Italia. Se è vero che lo stesso termine, in pratica, si può dire che sia stato inventato dallo citato Steiner. E rimanda a una stagione irripetibile della cultura italiana, e soprattutto di Milano, quando la consapevolezza di produrre tipici oggetti di serie come i libri ma che dovevano ogni volta (e ciascuno) confrontarsi con una singola persona e una singola esperienza (anche di vita), era massima.
Fateci caso: conosciamo spesso i nomi degli scrittori, in molti casi degli editori, poco o nulla quelli dei grafici. Eppure sono stati spesso degli artisti – e quanto questo termine non sia esagerato chiedetelo a Gillo Dorfles, uno dei pochi critici d’arte che ha da sempre capito e favorito l’importanza della «buona grafica» ”: costretti in uno spazio limitato e vincolati da precise regole di brand e corporate identity, come si dice oggi. Sono loro e i loro lavori i protagonisti di una storia poco nota del nostro Novecento, che racconta come la grafica editoriale, accanto al design industriale, sia stata una delle creazioni più durature e sicure del «made in Italy». E basti dire che a Londra, quando si trattò di rivedere le copertine della storica Penguin, scelsero il compianto Germano Facetti, un altro gigante italiano del design grafico.
A far caso a tutti questi aspetti – e sopperire così a questa lacuna, per molti versi grave – sono stati due appartati e originalissimi collezionisti veneziani, uniti dalla vita (sono marito e moglie) e dalla passione per «catalogare la modernità»: Giorgio Conti e Elia Barbiani. La loro collezione, unica in Italia, per organicità, dimensioni e profondità di analisi – e il fatto che Conti sia docente universitario in facoltà scientifiche aumenta la metodicità della raccolta – consta oggi di circa 3500 copertine e sovraccoperte (sistematicamente assenti o rimosse nelle biblioteche che conservano i libri: cosa della quale l’Aib è consapevole, tanto da dedicare alla questione un convegno qualche anno fa...) della produzione editoriale italiana dal 1945 al 2000. Una piccola parte di questa collezione, che ora cerca casa in un museo, sarà visibile a Gorgonzola, in una mostra intitolata «Vestire il libro» e curata dal libraio milanese Andrea Tomasetig (inaugurazione sabato 17 e apertura fino all’8 febbraio alla Biblioteca comunale). l’occasione per avvicinarsi a questi autori semi-ignoti, concentrandosi su quindici grafici che hanno creato per le maggiori case editrici: si va da maestri come Steiner, Bruno Munari (il vero genio del libro italiano, del quale torna la rassegna bibliografica completa, Munari. I libri, pagg. 288, 40, curata e aggiornata da Giorgio Maffei per Corraini) o John Alcorn a nomi meno noti ma non meno significativi, come Mario Dagrada, Mimmo Castellano, Ferenc Pintèr, Enzo Mari, Bruno Binosi o il rinomato studio Unimark (con il grande Bob Noorda e il venerato, in America, Massimo Vignelli). I Conti uniscono alla competenza, creata negli anni in cui ebbero una galleria d’arte a Venezia – frequentata da personaggi come Warhol ”, la conoscenza diretta dei protagonisti di quella stagione milanese, da Steiner a Munari. E a riprova della stima internazionale di cui gode, in Francia i curatori del bel Dictionnaire Mondial des Images (Nouveau Monde éditions, pagg. 1120, 56,00) hanno affidato proprio a Conti la voce «Livre». «Negli anni 60-70 – spiega Conti – il libro si è visualizzato, oggi si è spettacolarizzato. Milano, negli anni 50, era superiore, per me, alle stesse New York e Londra per il clima di creatività che vi si respirava. E la grafica editoriale non era da meno del design, così tanto celebrato. Le case editrici e i grafici migliori sono riusciti a dare un apporto educativo al gusto visivo delle generazioni del dopoguerra molto di più di quanto non siano riusciti a farlo alcuni musei o mostre d’avanguardia». vero: il libro ha il vantaggio di essere seriale e, quindi, di poter essere visto (basta farci caso...) da un numero molto alto di persone. La collezione Conti fa scorrere davanti ai nostri occhi una geografia completa dell’Italia editoriale del Novecento, dalla Firenze di Vallecchi e Nuova Italia alla Bari di Laterza, con le bellissime copertine di Castellano, alla Torino di Bollati e Einaudi, ma è soprattutto il ruolo di Milano a essere valorizzato. Non poteva essere diversamente. E se quel «Museo del libro e della lettura», interamente dedicato al Novecento, che lo stesso libraio Tomasetig ha ideato e sta mettendo in piedi radunando le migliori collezioni a tema sparse in giro (ci sono già quella, favolosa, di Giancarlo Baccoli con i menabò d’autore di Bruno Munari e la selezionatissima raccolta di libri futuristi e d’avanguardia di Gianni Manzo) dovesse finalmente nascere, Milano dovrebbe raccogliere la sfida. Dopotutto, il contributo di questa città si è identificato certo con la moda e il design, ma per molti Milano è (e resterà a lungo) in Italia la capitale della grande editoria, di periodici, quotidiani e, in particolare, di libri. Peccato che lo sappiano tutti, ma pochi sembrano farci caso. Men che mai chi dovrebbe.