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 2009  gennaio 13 Martedì calendario

A onor del picchetto, primi vennero gli inglesi. Furibondi già dall’Ottocento, secolo di costanti attacchi d’ira ai piedi delle impalcature che dovevano dar vita a canali degni della Industrial revolution

A onor del picchetto, primi vennero gli inglesi. Furibondi già dall’Ottocento, secolo di costanti attacchi d’ira ai piedi delle impalcature che dovevano dar vita a canali degni della Industrial revolution. Ma gli italiani recuperano sempre sulle lunghe distanze e perciò il Terzo millennio ha trovato anche noi sufficientemente affetti dalla sindrome Nimby, quell’attitudine di rifiutare – al grido di «Not in my back yard» – la costruzione di nuovi impianti nel cortile di casa propria. Associazioni di quartiere, blog di dissenso virtuale e riunioni operative reali, mailing list di reclutamento, «commandi» pronti ai blocchi in strada: il mondo dei comitati di protesta ha adottato da tempo una strategia allargata di difesa e attacco che parte dal no a una struttura, si alimenta di proposte alternative e arriva a contestare l’intero sistema politico. Il prezzo della disobbedienza civile è un ritardo costante del cantiere Italia. Ma il fronte del no non è il solo a dover sopportare il peso della colpa, dividendo responsabilità e polemiche con le croniche lentezze delle amministrazioni e i frequenti errori delle aziende promotrici. un Paese a bassa velocità quello fotografato dalla terza edizione dell’Aris-Nimby Forum, l’osservatorio che dal 2004 scartabella più di 300 quotidiani e 1.400 periodici catalogando e analizzando ogni anno l’informazione sui fenomeni di contestazione ambientale. Risultato: con 193 infrastrutture oggetto di protesta, il 2007 ha registrato una situazione cronica di stallo nella costruzione di grandi opere. Rigassificatori, termovalorizzatori, corridoi ferroviari, centrali a biomasse, elettrodotti, autostrade, discariche, inceneritori: qualunque fosse il progetto da realizzare lo stop è arrivato sempre per le stesse ragioni. Quali? Numero uno: le proteste. Spaventati per la loro salute, preoccupati per l’ambiente, protettivi nei confronti del loro territorio o semplicemente suscettibili a un aumento del traffico sulla strada per l’ufficio, spesso i cittadini hanno rallentato la costruzione di nuovi impianti per un atteggiamento impermeabile alle novità e per un’ideologia astratta di tutela più che per un’opposizione reale al progetto in sé, che nella maggior parte dei casi non conoscevano nei dettagli. Numero due: la politica. Iter complessi e interminabili, scarsa comunicazione tra amministrazione locale e nazionale, uso strumentale dei movimenti di protesta per orientare il consenso o da spendere nei giochi di potere e di leadership dentro i partiti. Il tutto all’interno di un sistema nel quale basta un ricorso al Tar per bloccare qualunque cosa per anni. Numero tre: le aziende. Grandi nomi e progetti importanti ma scarsissima capacità di coinvolgimento sul territorio e nessuna comunicazione «porta a porta» per spiegare alle persone il piano di lavoro e le prospettive per la popolazione. Le prove della mancanza di un piano di sviluppo a lungo termine, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Nimby Forum, sono nei numeri: tra il 2005 e il 2006 sono praticamente scomparsi dall’attenzione dei mezzi di comunicazione 89 impianti. Dalla terza pista dell’aeroporto Marco Polo di Venezia al valico dei Giovi, dalla tangenziale di Cortina alla ferrovia Malpensa, dalla discarica di Altamura all’elettrodotto di Laino Borgo. Qual è stato il loro destino? Il 32% di queste infrastrutture risulta abbandonato, il 19% bloccato (per un parziale del 51% di opere ferme da più di un anno), il 15% è in attesa di autorizzazione e il 3% di modifiche. Solo il 15% è in funzione, il 3% in costruzione e il 10% già costruito mentre per l’ultimo 3% non è stato neanche possibile risalire allo stato di avanzamento dei lavori. Da nord a sud i più odiati e temuti sono i termovalorizzatori, tallonati da discariche, centrali termoelettriche e impianti per il trattamento dei rifiuti. «Tutta l’Italia è bloccata da ostacoli burocratici o amministrativi – spiega Alessandro Beulcke, presidente del Nimby Forum – o dall’abbandono del progetto da parte delle imprese proponenti che si lasciano scoraggiare dalle proteste dei cittadini, dalle lungaggini burocratiche o dagli accertamenti giudiziari. Noi non abbiamo un assetto giuridico che consenta di ovviare al fenomeno Nimby: ci sono leggi poco chiare, valutazioni di impatto ambientale che dovrebbero chiarire e dare un parere tecnico a un’infrastruttura ma che in molti casi non vengono neanche avviate perché le aziende sono terrorizzate dai ricorsi al Tar e gettano subito la spugna. In più, spesso, il no della gente scatta quando ancora il progetto è poco più che un’ipotesi lontana da un iter autorizzato che quindi non fa neanche in tempo a partire». Non sarebbe corretto però, attribuire tutte le colpe ai comitati di protesta, spiega Beulcke: «Se domani davanti a casa mia spunta un cantiere e io non ho mai ricevuto una lettera, non sono mai stato convocato da un’assemblea pubblica e dalla mia finestra vedo le ruspe all’opera senza che nessuno mi abbia mai spiegato niente, è normale che voglia vederci chiaro. Basterebbe una maggiore attenzione: ecco, diciamo che da noi mancano strumenti semplici ma utilissimi come l’enquête publique che ritiene imprescindibile il dialogo tra aziende, politica e territorio. In Francia, le imprese presentano dettagliatamente il progetto, la popolazione residente è chiamata a dare un parere consuntivo e alla fine c’è una decisione inequivocabile di avvio dei lavori ». Anche l’analisi di Confindustria parte da una situazione di generale immobilismo del Paese. Spiega Cesare Trevisani, vicepresidente per Infra Legambiente «Ci accusano del blocco, ma in realtà le infrastrutture sono bloccate da se stesse perché non ci sono i fondi»strutture, logistica e mobilità: «In Italia c’è un problema eclatante dei tempi di realizzazione delle opere e dei blocchi a esse collegati. Il punto è la qualità dei progetti: le opere vanno spesso in gara con informazioni e dati insufficienti per una valutazione corretta di costi e benefici da parte della collettività e un’analisi tecnico-amministrativa carente. Le amministrazioni tendono a risparmiare sulle indagini preliminari ma poi si ritrovano davanti criticità realizzative e contenziosi. La questione del consenso si potrebbe risolvere se solo si informasse al meglio la popolazione e le si desse l’opportunità di esprimersi in merito ». Proprio in questa direzione si muove il pacchetto che Confindustria sta preparando e che vorrebbe presentare al governo e al ministro Altero Matteoli: «Con tutta la filiera delle imprese interessate – dice Trevisani – stiamo preparando una serie di proposte per lo snellimento delle procedure amministrative, lo sviluppo della finanza privata, la qualificazione dell’impresa, la presentazione dei progetti sul territorio anche in fase di ideazione e la predisposizione per le opere medio piccole di meccanismi sul genere dello sportello unico». Un’ultima analisi del fenomeno Nimby arriva da Legambiente. Per il presidente Vittorio Cogliati Dezza ci sono casi in cui non si può fermare lo sviluppo: «Penso alle discariche, che se fatte a regola d’arte sono più che sicure e quindi è sbagliato rifiutare sempre, comunque e ovunque». Se però si parla della Tav o del ponte sullo Stretto di Messina «le proteste non sono soltanto la difesa di un bene locale ma anche la denuncia di procedimenti del tutto irrazionali e di un’arroganza da parte delle istituzioni». La spiegazione di Legambiente per ritardi e sprechi è questa: «Da sempre si accusano gli ambientalisti del blocco di opere pubbliche che in realtà sono bloccate da se stesse perché approvate senza i fondi necessari o fermate da lobby locali che nulla c’entrano con chi difende l’ambiente. Il problema sono le opere necessarie: che al sud serva un ammodernamento delle infrastrutture nessuno lo mette in dubbio, ma sei autostrade in Lombardia sono proprio indispensabili?». Neanche l’introduzione dei commissari per la supervisione delle opere prioritarie prevista dal decreto anticrisi del governo Berlusconi è un passo avanti: «Far decidere tutto a un commissario è antidemocratico. La democrazia non è una lungaggine». Elsa Muschella «Per ripartire commissari e Tar modificato» MILANO – Tra una riunione a Roma con i sindacati e un incontro a Parma con gli amministratori locali, in questi giorni il ministro va di fretta ma ha un chiodo fisso che si pianta su un tourbillon di cifre e numeri: «L’Italia ripartirà. C’è un progetto triennale per 44 miliardi di euro di infrastrutture. Al Cipe sono già passati 16,6 miliardi di euro per progetti che possono e devono essere cantierati subito. In caso contrario ci saranno 65mila disoccupati». Altero Matteoli è convinto che il 2009 sarà l’anno delle grandi opere. La sua scommessa è in parte sul tavolo dell’articolo 20 del decreto anticrisi che la Camera sta discutendo in queste ore. Al ministero per le Infrastrutture e i Trasporti ci hanno lavorato intensamente: iter accelerato per le opere pubbliche ritenute «prioritarie per lo sviluppo economico del territorio», nomina di commissari che dovranno vigilare su tutte le «fasi di realizzazione dell’investimento» e che quindi seguiranno ogni progetto dall’inizio alla fine decidendo anche al posto delle amministrazioni interessate, ma soprattutto abolizione della sospensiva del Tar. «Dobbiamo assolutamente snellire le procedure’ spiega Matteoli ”. Oggi il Tar, di fronte a un ricorso, non entra nel merito ma blocca l’opera e poi si esprime, magari dopo anni. Questo non potrà più avvenire: con le nuove misure vengono accorciati i tempi per il ricorso contro le decisioni del commissario. Il cantiere andrà avanti lo stesso e se il ricorrente dimostrerà di avere ragione otterrà un indennizzo». Immobilismo, sprechi e ritardi saranno solo il ricordo di «una burocrazia e di una serie di norme che si sono sovrapposte negli anni e che questo governo s’impegna a evitare. Agli inizi degli anni ’70 eravamo il terzo Paese infrastrutturato in Europa, oggi siamo al diciannovesimo posto». Le colpe? «Di tutti e di nessuno: le lentezze di una certa politica ma anche il fondamentalismo del no». Ovvero – chiarisce il ministro – le continue proteste di comitati e associazioni ambientaliste: «In Italia quando si apre un cantiere parte l’opposizione: magari è perché passa vicino casa o perché si espropriano 100 metri di una proprietà immensa, ma troppi cittadini si credono ingegneri e architetti e sono sicuri di essere portatori del verbo. Io sono favorevole a qualsiasi confronto ma nessuno deve dimenticare che è il governo che ha l’obbligo di decidere. Lo stallo degli anni passati è anche colpa di questo atteggiamento e non può più essere tollerato in un Paese civile e serio». Qualche esempio pratico: la Tav. «Le proteste sono sempre legittime, poi però si decide. Sono stato più volte a Torino e ribadisco: la Torino-Lione si deve fare. Se con i Comuni riusciremo a trovare un progetto condiviso ne saremo felici, altrimenti si andrà avanti lo stesso». In fondo, non c’è «una priorità di serie A e altre di serie B»: i 44 miliardi di euro finanzieranno «il ponte sullo Stretto di Messina, la Variante di Valico, la Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada Livorno-Civitavecchia, la BreBeMi, la Torino-Lione, la fine dei lavori del Mose». Il decreto anticrisi deve ancora passare all’esame del Senato e va approvato entro il 28 gennaio, pena la decadenza. Matteoli, però, non è preoccupato neanche un po’: «Sono assolutamente fiducioso. Altrimenti non sarei qui, a lavorare senza un attimo di sosta».